giovedì 28 febbraio 2008

Giuliano ha già vinto. Ora si ritiri.

La sua candidatura ha messo sotto i riflettori il tema dell’aborto: splendido risultato. Adesso, meglio fare un passo indietro per chiedere ai candidati di sostenere la moratoria...

di Antonio Socci

Caro Giuliano, dopo averti dato il mio appoggio, dalle colonne del Corriere della Sera, voglio darti ora un consiglio, anch'esso non richiesto: annuncia di non presentare più la tua lista perché hai già vinto la battaglia. Puoi cestinare questo invito all'istante. Ma ti prego almeno di ascoltare e rifletterci. Sai che ho applaudito con entusiasmo la tua (la nostra) bella battaglia culturale e morale contro il flagello del XX secolo, perché non è più possibile che la nostra generazione spazzi via un miliardo di vittime innocenti (50 milioni all'anno) facendo finta di nulla, volgendo la faccia dall'altra parte come se si trattasse di bazzecole (se non temiamo il giudizio di Dio, dovremmo almeno temere quello dei posteri, dei nostri pronipoti, che potranno avere vergogna o orrore di noi). Intelligente e generosissima è stata anche la tua idea della lista "pro life" per evitare che la campagna elettorale facesse sparire il dibattito sulla moratoria per la vita. Di fatto sei riuscito in un'operazione temeraria e splendida: imporre finalmente al centro del vaniloquio politico e mediatico un dramma vero, che gronda lacrime e sangue.
SUCCESSO PERSONALE
Il risultato l'hai raggiunto. Splendidamente. La tua vittoria, anche personale, l'hai conseguita. Infatti oggi tutti - da Destra a Sinistra - ripetono di volere "la piena attuazione della legge 194" (anche nelle parti dov'è prevista la tutela della maternità e l'aiuto alle donne in difficoltà). Che poi è esattamente quello che vuoi tu. In effetti - qualora tu presentassi la lista - sarebbe assurdo che tu non chiedessi di cancellare o cambiare la 194: in Parlamento si va per questo, per modificare o fare le leggi. Siccome tu non dici e non vuoi questo, chiedere una rappresentanza parlamentare per volere ciò che vogliono tutti (la piena applicazione della 194) non avrebbe senso. Ci può essere un altro obiettivo prezioso: fare il ministro della Salute. Non so se tu davvero lo voglia, non so quanto sia una provocazione, ma di certo è un obiettivo raggiungibile e sarebbe molto utile per dare davvero piena attuazione alla legge. Però tu sai bene che - a questo punto - è più facile ottenere questo incarico (dai tuoi amici di centrodestra) ritirando la lista. Presentarla probabilmente sarebbe controproducente, farebbe saltare la cosa. Tu potresti fare questo discorso chiaro: «Signori, ho le firme per presentare le mie liste e i miei candidati. Quindi non cambio idea facendo come la volpe all'uva. Potevo benissimo presentare tutte le liste. Se ora invece non lo faccio più, è perché sono già riuscito nel mio obiettivo di farvi aprire gli occhi su questa tragedia e di farvi prendere un impegno politico a tutela della maternità, della civiltà e del nostro futuro. Inoltre presentare adesso la lista sarebbe controproducente: non solo per l'eventuale incarico di ministro della Salute, con il quale voglio personalmente lavorare per questa riscossa della vita, ma anche perché il risultato della lista (nel migliore dei casi l'1 per cento, ma diciamo pure il 4 per cento) potrebbe essere strumentalizzato da chi, all'indomani del voto, indicherà in quella piccola cifra il totale di coloro che sono contrari all'aborto. Così non è, ovviamente. Il popolo della vita è molto più vasto del risultato elettorale di una lista monotematica. Per evitare equivoci a questo punto non la presenterò. Come dicevamo nel 2005, in occasione del referendum sulla legge 40, «sulla vita non si vota». Io voglio evitare - ora che ho vinto la battaglia - di regalare alla cultura abortista un argomento formidabile. Sarebbe del tutto controproducente. Rischierei di fare un grave danno alla causa della vita che invece voglio sostenere. Anzi, visto il consenso trasversale che la nostra battaglia ha guadagnato, trasformeremo la nostra iniziativa in una lobby di candiddati e parlamentari, di tutti gli schieramenti, disposti a sottoscrivere la nostra moratoria e a battersi per essa in parlamento.

UN IMPEGNO DI VALORE
Potresti anche chiedere, caro Giuliano, che questi candidati, una volta eletti, si impegnassero con un tot mensile a sostegno dei centri di aiuto alla vita a cui devolvere anche una sottoscrizione di chi avrebbe voluto sostenere la lista. Ricordo che sono i "centri di aiuti alla vita" del Movimento per la vita e della Caritas che in questi ultimi 30 anni hanno aiutato circa 80 mila donne in difficoltà permettendo a 80 mila bambini di nascere e vivere. Devolvere anche una piccola parte dei soldi che sarebbero stati spesi per la campagna elettorale a questi benemeriti centri, fatti da volontari e poveri di mezzi, certamente salverebbe più vite di quante ne salva una lista elettorale. D'altra parte la Chiesa stessa - che non ha mai rinunciato a dire la verità sull'aborto e a raggiungere l'obiettivo "zero aborti" - sa che la strada per arrivarci è innanzitutto questa dell'aiuto alla vita e alle donne. Non è la politica che risolverà questo dramma, ma un lungo sommovimento delle coscienze. Come quello che - dopo la venuta di Gesù, Figlio di Dio - portò, con il tempo, alla sparizione della schiavitù dalla terra. È un realismo faticoso, ma umile e autentico. Significa - per dirla alla maniera del tuo amico Sofri - capire che c'è un nodo da sciogliere con pazienza e non un chiodo da piantare con un colpo spettacolare. È ciò che, in politica, oppone il riformismo al massimalismo. È la pazienza del lavoro quotidiano. Perché la performance spettacolare non risolve il problema e talora rischia di aggravarlo. La "bella morte" è un mito della cultura nichilista, come la provocazione dannunziana. Per tanti di noi, anni fa, fu illuminante il discorso che l'allora cardinale Ratzinger tenne ad alcuni politici cattolici del suo Paese. Era un elogio del compromesso, contro integralismi e fanatismi. «Il primo servizio che la fede fa alla politica» disse Ratzinger «è dunque la liberazione dell'uomo dall'irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. Essere sobri ed attuare ciò che è possibile e non reclamare con il cuore in fiamme l'impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica» concludeva Ratzinger «consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell'umanità dell'uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell'avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell'uomo e compie, entro queste misure, l'opera dell'uomo. Non l'assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell'attività politica». La tua intelligenza e la tua generosità, caro Giuliano, hanno già conseguito una vittoria straordinaria. Tanti di noi ti sono e ti saranno grati, fra i laici come fra i credenti, se vorrai continuare insieme a noi questa bella avventura (hai potuto constatare quanto il popolo cattolico ti circondi di affetto e stima). Adesso prendi la decisione giusta e avrai fatto un autentico capolavoro.

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lunedì 25 febbraio 2008

La Messa tridentina

di don Ivo Cisar

1. Due riti distinti
È sentita la necessità di spiegare la messa c.d. tridentina, dove questa viene celebrata, nelle sue principali differenze dalla messa "nuova", postconciliare, perché non tutti ne percepiscono chiaramente le ragioni. Lo faremo in alcune brevissime puntate distribuite lungo l'arco dell'anno liturgico.
Prima di tutto ricordiamo che la santa messa tradizionale, di rito romano antico, in uso nella Chiesa da secoli, viene celebrata per concessione dei vescovi in base all'indulto pontificio del 3 ottobre 1984 (EV 9,1034-1035), confermato con la lettera motu proprio del Papa Ecclesia Dei del 2 luglio 1988 (EV 11,1197-1205) [in realtà, non è più così dalla recente promulgazione del 7 Luglio 2007 del Motu Proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI che liberalizza il Messale del '62, ndr].
Si tratta di due riti distinti, come esistono nella Chiesa cattolica vari riti (SC 3: EV 1,3-4; can. 2 CIC) nei quali rimane identica la sostanza della santa messa, mentre essi differiscono in vari e molteplici particolari che ne mettono più o meno in luce vari aspetti; è proibita la commistione tra i due riti (EV 9,1035d).
Pertanto non viene messa in dubbio la validità della c.d. "nuova" messa - introdotta sotto il pontificato di Paolo VI nel 1969 con la Costituzione apostolica Missale Romanum (20 ottobre 1969: EV 3,1619-1640), con la decorrenza dal 30 novembre 1969 (ivi, 1621) - a condizione che il sacerdote celebrante abbia l'intenzione (attuale o virtuale) di consacrare.
Non può venir messa in dubbio, quindi, né la legittimità (a certe condizioni) della messa tridentina, né la validità (a certe condizioni) della "nuova messa".


2. La santa messa
La santa messa si può definire come atto supremo del culto di Dio Uno e Trino, mediante il sacrificio redentore di Gesù Cristo compiuto sulla croce, che si rinnova ossia rende presente sull'altare attraverso la ripetizione dell'Ultima Cena, sacramento del sacrificio di Cristo (la santa messa è un sacrificio sacramentale, applicativo).
La sua struttura fondamentale è data dalla c.d. liturgia della parola e dalla liturgia eucaristica che, a sua volta, consta di due parti: il sacrificio e la santa comunione. Essenziale è il sacrificio, nel quale mediante la consacrazione separata del pane e del vino si rinnova l'offerta al Padre del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo: uno e identico ne è il sacerdote principale, una e identica la vittima, Gesù Cristo, soltanto il modo di fare l'offerta è differente, cruento sulla croce, incruento sull'altare (Pio XII, Enciclica Mediator Dei, II 1: EE 6,493-494). Esso si rinnova perché la Chiesa si unisca al sacrificio del suo Capo e s'inserisca in esso, partecipandovi, al fine di trarne i frutti salvifici. A tal fine è necessaria una partecipazione spirituale dei fedeli (cfr. ivi, 506-528), non è necessaria, invece, la santa comunione che è una parte integrante del sacrificio ed è obbligatoria soltanto per il sacerdote celebrante. Non è necessaria la presenza dei fedeli alla celebrazione, perché la santa messa è sempre un atto pubblico, a favore di tutta la Chiesa.

3. Le principali differenze
Da quanto detto sulla struttura fondamentale della santa messa, sacrificio sacramentale di quello della croce, risultano le principali differenze tra la messa tridentina e quella "nuova", assieme alle finalità della santa messa, ossia tra quello che la messa è e quello che la messa non è:
difatti, il fine della liturgia non è quello di costituire un'assemblea, di fare uno spettacolo, di fare una "festa", di celebrare una semplice cena.
Ora, nella nuova messa si riscontrano alcune accentuazioni che potrebbero far travisare le finalità essenziali della santa messa:
1) nella "nuova messa" è accentuato l'aspetto di azione della Chiesa (intesa come?): il sacerdote celebrante in parecchi momenti si confonde in un certo qual modo con i fedeli (come risulterà meglio ancora); ma la santa messa non un'assemblea;
2) nella "nuova messa" è accentuata la liturgia della parola, comprese le varie "didascalie", quindi l'aspetto didattico (anche se l'omelia è spesso impoverita); ma la messa non uno spettacolo, e tanto meno TV (?).
3) nella "nuova messa" è ridotto l'aspetto sacrificale (un offertorio quasi inesistente, le preci eucaristiche più brevi e scarne); ma la messa non è (solo) una "festa" (l'accento posto sulla gioia della risurrezione);
4) nella "nuova messa" è accentuato l'aspetto conviviale (già nell'Offertorio): ma la messa non è una cena (soltanto), come per i protestanti.


4. Il sacrificio eucaristico
Il sacrificio che è la parte centrale e del tutto essenziale della santa messa, sacrificio sacramentale, perché riferito a quello della croce, è atto supremo di culto divino, al fine di lodare e ringraziare Dio, dal quale riceviamo tutto (Es 22,29; 33,5.21; Lv 23,10; Pr 3,9).
Il sacrificio, dopo il peccato, ha anche una finalità propiziatoria, di riconciliazione con Dio (cfr. 2Cor 5,19), mediante l'atto supremo di obbedienza di Gesù Cristo, unico Mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm 2,5), obbedienza fino alla morte di croce (Fil 2,8), per soddisfare (più che per "espiare", ma vedi anche 1Gv 2,2) per i nostri peccati, in quanto il peccato è disobbedienza (cfr. Rm 5,19).
Conseguentemente, il sacrificio eucaristico è anche un sacrificio di impetrazione di tutte le grazie necessarie per la nostra salvezza (cfr. Rm 8,32), di impetrazione per i vivi e i defunti, per la Chiesa e per tutto il mondo, in particolare per chi viene celebrata la messa, per chi la celebra, per chi vi partecipa ("assiste").
Ne risulta l'assoluta necessità della santa messa per la salvezza eterna, in quanto in essa si rinnova e rende presente il sacrificio redentore di Gesù Cristo. La sua obbligatorietà scaturisce dalla virtù della religione (giustizia verso Dio) e dal suo valore salvifico del tutto fondamentale.


5. Un solo sacerdote
Il sacrificio della croce, e quindi quello sacramentale, per anticipazione, dell'Ultima Cena, e quello sacramentale "per commemorazione" (nel senso forte della parola) dell'eucaristia ("rendimento di grazie"), è compiuto dall'unico ed eterno Sommo Sacerdote, Gesù Cristo (Eb 7,24; 9,26).
Nella messa tridentina, celebrata da un solo sacerdote, risalta chiaramente questo aspetto cristologico della santa messa. Il sacerdote è mediatore tra Dio e gli uomini, ministro di Cristo: è lui che offre i doni (vittima), che consacra, che compie il sacrificio; solo grazie alla sua azione il sacerdozio, essenzialmente distinto (LG 10b: EV 1,312), viene attuato ed esercitato ed è reso efficace.
Pertanto, il Canone (romano) è la preghiera esclusivamente sacerdotale e viene recitato, per la maggior parte, a bassa voce, eccetto il canto (o recita ad alta voce) del Prefazio e del Pater noster.
La concelebrazione, limitata dal Concilio Vaticano II ad alcuni casi e che non può venire mai imposta ai singoli sacerdoti (SC 57: EV 1, 97-106; can. 902 CIC), non aiuta a percepire l'unicità del sacerdote il quale non è mai soltanto un "presidente" (dell'assemblea). Essa fa risaltare l'unicità del sacerdozio intorno al Vescovo, specialmente il Giovedì santo, ma non deve diventare una comoda abitudine che peraltro priva i fedeli del beneficio della santa messa distribuita in più luoghi e orari.


6. L'altare
Il sacerdote non si pone "contro" i fedeli, chiudendosi in un cerchio (cfr. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia³, Cinisello Balsamo, 2001, p. 76), ma sta a capo del "popolo di Dio", quale condottiero, e con esso si rivolge a Dio, verso l'oriente, verso l'altare, il quale non deve essere mai una tavola (per una specie di Cena di tipo protestante) e che non è prescritta, resa obbligatoria, anzi, la duplicità di "altari" dovuti a quelli posticci deve col tempo scomparire (cfr. doc. sulla riforma liturgica del 25 gennaio 1966: EV 2,610).
Sull'altare deve essere collocato un crocifisso, perché vi si rinnova il sacrificio della croce; vi si trova, in mezzo, il tabernacolo, sede di Cristo, presente realmente sotto le specie eucaristiche e la cui presenza, prodotta dalla transustanziazione avvenuta nella consacrazione, è durevole; vi sono i candelieri con le candele per significare la presenza di Cristo, "luce del mondo" (Gv 8,12; Lc 2,32; 1,78); nella sua pietra si conservano le reliquie dei santi, nostri intercessori presso Dio (Canone romano), con i quali siamo uniti nella grande comunione dei santi e della liturgia celeste (cfr. Ap 6,9).
L'altare, con il ministero del sacerdote (cfr. 1Cor 4,1), rende la Chiesa aperta verso il mistero redentivo di Cristo e verso la patria celeste (Fil 3,20), verso la quale il popolo di Dio è incamminato.


7. Il latino e la partecipazione
Il latino è la caratteristica della messa tridentina, che più risalta. Anche la "nuova messa" si può celebrare in latino, ma resta un rito distinto. La lingua latina che il Concilio Vaticano II ha deciso di conservare (SC 36; can. 928 CIC) è una lingua sacra, precisa garanzia dell'ortodossia e della universalità o cattolicità della Chiesa, dell'immutabilità del dogma (cfr. Eb 13,8-9), compromessa dalle molteplici e non sempre felici traduzioni, peraltro bisognose di continui aggiornamenti.
Già si è detto che il canone è una preghiera esclusivamente sacerdotale che viene recitata dal sacerdote per la maggior parte a bassa voce. Per partecipare "attivamente", cioè spiritualmente, alla santa messa, la cui prima parte, la c.d. liturgia della parola (letture, omelia) è pienamente "comprensibile" perché svolta in lingua volgare, non è necessario capire materialmente ogni singola parola. Della liturgia bisogna afferrare lo spirito, la sostanza che è quella di un mistero ossia evento salvifico della redenzione dai peccati, operata da Cristo, di cui dobbiamo appropriarci, e quindi della salvezza finale.
Si può ricorrere a un paragone tratto dall'opera: anche in essa non sempre vengono percepite e capite le singole parole, ma se ne capisce l'essenza, la sostanza dell'azione o l'azione complessiva, e se ne percepisce la bellezza. La parole a volte possono disturbare; è necessario anche e soprattutto il silenzio (esteriore). E come il sacerdote si serve del messale, così possono fare i fedeli (con l'ausilio dei messalini o dei foglietti, come per il libretto dell'opera).


8. Il sacerdote e i fedeli
Mentre nella "nuova messa" le parti del sacerdote celebrante e del popolo dei fedeli spesso si confondono, nella messa tradizionale esse rimangono distinte, in ossequio al principio che la messa è l'atto di Cristo che lo compie mediante il ministero del sacerdote.
Rimangono distinti il Confiteor ai piedi dell'altare, l'Agnus Dei, il Domine non sum dignus; la distinzione tra il sacerdote-mediatore e i fedeli ricorre anche nel Canone, almeno tre volte: l'adorazione del santissimo Sacramento dopo la consacrazione è doppia, distinta; è separato il canto o la recita del Pater noster, pronunciato dal solo sacerdote, anche se a nome di tutta la Chiesa; ritorna spesso la distinzione nella seconda persona plurale quando il sacerdote si rivolge ai fedeli, come nei frequenti Dominus vobiscum - segno ed espressione dell'unione di Cristo con i fedeli e insieme l'esortazione al raccoglimento alla presenza di Cristo; non si dà luogo ad abusi e travisamenti come quando oggi alcuni sacerdoti si esprimono nella prima persona plurale, non consentito neppure dalla nuova liturgia, come: "questo nostro sacrificio", "lavaci, purificaci"; "ci custodisca"; "ci benedica"; un abuso analogo a quello di trasporre all'indicativo quel che è all'imperativo, meglio sarebbe dire "implorativo": "Dio ha misericordia di noi, ci perdona i nostri peccati ecc.", invece di "Dio abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati ecc." - è una preghiera di intercessione richiesta alla fine del Confiteor.


9. Profonda umiltà
Tutta la messa tradizionale è pervasa da un afflato di profonda umiltà, insegnataci da Gesù nella parabola del superbo fariseo e dell'umile pubblicano (Lc 18,9-14): così nelle preghiere ai piedi dell'altare, prima di salire verso di esso; così in tutte le orazioni in cui non vengono evitate espressioni eliminate dalla nuova liturgia perché suonerebbero offensive al delicato orecchio dell'odierno cristiano che si ritiene maturo, adulto, come: peccato, riparazione, inferno, le insidie del male, avversità, nemici, tribolazioni, afflizioni, infermità dell'anima, durezza del cuore, concupiscenza, indegnità, tentazione, cattivi pensieri, gravi offese, perdita del cielo, morte eterna, punizione eterna, frutti proibiti, colpa, eterno riposo, vera fede, meriti, intercessione, comunione dei santi ecc., al posto delle quali oggi si vuole sentire solo gioia, festa ed espressioni anche di tipo sociale o terrestre o vago, come senso cristiano della vita, guarigione dagli egoismi, conforto della protezione divina, coerenza di vita, spirito rinnovato, tua amicizia (con Dio), servizio dei fratelli, fraternità e pace, mondo più umano e giusto, impegno al servizio del prossimo, desiderio di intesa e di collaborazione, messaggio di bontà e di gioia, impegno civile, progresso nella libertà e nella pace, e così via (cfr. Bianchi, Liturgia: memoria o istruzioni per l'uso? Studi sulla trasformazione della lingua dei testi liturgici nell'attuazione della riforma, Casale Monferrato, 2002). Le orazioni tradizionali latine sono, inoltre, molto concise e profonde nella loro semplicità, quindi pregnanti, e invitano alla riflessione.


10. Ricchezza e bellezza
La messa tridentina non solo non pecca di eccessiva brevità, ma è anche ricca nei suoi vari elementi. La nuova messa risulta accorciata di circa un terzo ed sproporzionata tra una liturgia della parola a volte eccessivamente lunga, pur essendo le omelie oggi assai ridotte, e la liturgia eucaristica, specialmente quando viene usata, come accade di preferenza, la Prece eucaristica seconda. Ma la nuova messa è anche povera rispetto a quella tradizionale dove abbondano le orazioni che possono essere anche doppie o triple, le bellissime sequenze, ispirate dalla sacra scrittura, come Dies irae, Stabat mater, Veni Sancte Spiritus, Lauda Sion Salvatorem, Victimae paschali laudes, ecc. È ricca di feste di santi, di colori, di paramenti, nelle chiese architettonicamente e artisticamente belle che favoriscono il raccoglimento e l'orazione quale elevazione della mente a Dio, nella partecipazione alla perenne liturgia celeste, con frequenti invocazioni degli angeli e dei santi, anche nello stesso canone romano. Nella messa tridentina si sente la traccia della bellezza di Dio e del suo regno celeste. Anche grazie al suono dell'organo e al canto gregoriano, entrambi raccomandati dal Concilio Vaticano II (SC 116,120). Dio è Verità, Bontà e Bellezza e la liturgia deve riflettere tali sue proprietà che illuminano la nostra esistenza. Il Santo Padre, nella carechesi del 26 febbraio 2003, ha insistito sulla necessità della bellezza nella liturgia e nei canti e nella musica sacra, invitando la Chiesa a farne oggetto di un esame di coscienza.


11. Le letture
Il Concilio Vaticano II aveva raccomandato una maggiore ricchezza biblica nella messa, letture più abbondanti, in modo che in un determinato numero di anni si legga al popolo la parte migliore della sacra scrittura (SC 51). Sono nati così dei cicli triennali di letture bibliche che comprendono anche quelle tratte dall'Antico Testamento; nelle domeniche e nelle feste si hanno tre letture, delle quali la prima è presa dal Vecchio Testamento.
A questo proposito bisogna dire che le scelte dei brani scritturistici non sono sempre felici né con tagli appropriati e che specialmente le letture dell'Antico Testamento non sono sempre ben comprensibili. Inoltre, per parola di Dio non è intendersi soltanto la sacra scrittura o la Bibbia, bensì anche e in primo luogo la predicazione della Chiesa (cfr. 1Ts 2,13), nella quale l'omelia non consiste soltanto nel commentare la Bibbia come per i protestanti. Quel che deve essere esauriente è questa predicazione che deve esporre gli argomenti principali del Credo, dei sacramenti, della morale cristiana e della preghiera cristiana, come si ha nei catechismi (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica), mentre un limitarsi ai temi immediatamente proposti (quando vengono colti) dalle letture bibliche risulta a volte dispersivo e incompleto, con il danno di una minore fissazione nella memoria dei punti principali o capitali della dottrina cattolica (cfr. R. Amerio, Iota unum, Milamo-Napoli, Ricciardi, 1985, p. 541). A voler dare un panorama completo (non lo sarà mai) della sacra scrittura ci si imbatte anche in brani poveri di contenuto o ripetitivi, mentre nella messa tridentina le letture bibliche, specialmente in certi tempi, come quello della Quaresima, sono più ampie.


12. L'Offertorio sacrificale
La parte più ridotta della "nuova messa" rispetto a quella precedente è l'Offertorio, nel quale iniziava il sacrificio con la presentazione a Dio dei doni sacrificali da parte della Chiesa; questi doni passavano nella sfera divina e il sacrificio veniva compiuto mediante la transustanziazione, ossia mediante il cambiamento del pane e del vino in Corpo e Sangue di Gesù Cristo; in tale maniera il sacrificio da parte della Chiesa viene a identificarsi con quello del nostro Signore, diventa tutt'uno con questo e acquista la sua efficacia. Oggi, invece, nella "nuova messa" l'Offertorio è stato sostituito con una specie di benedizione della tavola, di tipo ebraico, quasi fosse soltanto un preludio alla Cena, sulla quale oggi si pone un accento esagerato quasi nella messa fosse obbligatoria per tutti e sempre la santa comunione eucaristica. Questa è, però, soltanto un elemento integrante, obbligatorio per il solo sacerdote, mentre ai fedeli è vivamente raccomandata, ma sempre a certe condizioni, tra le quali al primo posto quella dello stato di grazia. Oggi, invece, si hanno comunioni di massa, in piedi, anche sulla mano, di molte persone che non si trovano in stato di grazia, ma commettono un sacrilegio. La messa non è soltanto o principalmente una Cena, di tipo protestante.


13. La conclusione
A conclusione della messa tridentina si ha la lettura del c.d. "ultimo Vangelo", di solito tratto dal prologo del vangelo secondo san Giovanni, che serve a elevare potentemente l'animo verso il mistero di Dio Uno e Trino e del Verbo Incarnato, offerto, sacrificatosi per noi e donatosi a noi nella santa messa, di modo che esso serve di primo ringraziamento. Nelle messe c.d. lette seguono anche le preghiere, di nuovo ai piedi dell'altare, in ginocchio, per la libertà e l'esaltazione della santa Madre Chiesa e contro il demonio che insidia le anime e la loro salvezza eterna, prescritte dal grande pontefice Leone XIII. La loro necessità risulta sempre più chiara dallo svolgersi della storia contemporanea.
Nelle sagrestie si trovavano nel passato delle tabelle con una serie di preghiere, fatte di salmi e di altre composte dai santi, che servivano di preparazione e di ringraziamento al sacerdote celebrante, comprese le intenzioni di consacrare e di applicare il sacrificio eucaristico; la preparazione e il ringraziamento sono prescritti tuttora ai sacerdoti (can. 909 CIC) e servono di esempio anche ai fedeli; i ritardi nell'arrivare alla santa messa e la dissipazione subito alla fine compromettono i suoi frutti spirituali.


14. Riti e simboli
Nelle messe solenni il sacerdote celebrante viene assistito dal diacono e dal “suddiacono” (ordine maggiore non più esistente, ma ne rimangono le funzioni nella santa messa solenne); questi, tra l'altro, cantano il Vangelo e l'Epistola. Si usa anche l'incenso, per incensare i doni sacrificali, l'altare e le persone. L'incenso simboleggia il sacrificio perfetto, quello dell'olocausto, in cui veniva bruciata la vittima (offerta a Dio) e ne saliva verso Dio il fumo; vengono incensate anche le persone (del celebrante, degli assistenti, dei fedeli), in quanto si offrono a Dio come vittime spirituali in odorem suavitatis (Gn 8,21; Ef 5,2); anche le orazioni dei santi vengono considerate come profumi che salgono verso Dio (Ap 5,8), come pure le virtù dei cristiani (2Cor 2,15; cfr. Gv 2,3).
Una caratteristica tipica della messa tridentina è il massimo rispetto verso il SS.mo sacrificio e il SS.mo Sacramento dell'altare; ciò si manifesta nelle frequenti genuflessioni e nella massima cura dei frammenti eucaristici secondo il precetto del Signore: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto” (Gv 6,12), poiché anche nel minimo frammento eucaristico è presente il Corpo Ss.mo del divin Redentore.
Il bacio dell'altare che rappresenta Cristo è il bacio riverente in segno di adorazione (cfr. Mt 28,9; Gv 20,17) e di comunione con Gesù.
Il tabernacolo occupa il posto centrale ed elevato, quale si addice al trono di Dio.


15. Un recupero pastorale
Se ci domandiamo, a questo punto, perché la gente si è allontanata dalla santa messa, possiamo ritenere che il motivo ne è la sua banalizzazione come risulta da quanto esposto fin qui. Manca anche il senso di Dio (la fede), il senso del peccato (il pentimento), il senso della redenzione (la ricerca della grazia); per colpa anche di una predicazione monca, difettosa, a volte da "falsi profeti" che addormentano le coscienze, tentando di parlare solo "al positivo", solo di feste, gioia, risurrezione, trascurando la realtà del peccato, la necessità della redenzione, il rinnovamento del sacrificio della croce sull'altare. Non si insiste più abbastanza sull'obbligo della santa messa (vedi invece il can. 1247 CIC), né sulle disposizioni necessarie per parteciparvi (cfr. CCC 1387). C'è un grande rilassamento nella morale cristiana e nelle celebrazioni liturgiche. Le chiese sono diventate spesso musei, pinacoteche, sale da concerto. Le modalità con cui vengono celebrati i sacramenti, in particolare i matrimoni, ne degradano la sacralità. C'è poco silenzio e raccoglimento nelle chiese, anche durante o prima o dopo la santa messa.
In tutto ciò prevale lo spirito dei tempi che è uno spirito antropocentrico: al centro di tutto è posto l'uomo, la "comunità".
La messa tridentina, invece, favorisce il ricupero del senso di Dio, del sacro, tributando il retto culto a Dio e arricchendo lo spirito umano di grazia divina, di bellezza, quindi di felicità.

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Il Cristianesimo è un movimento giudaico?

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La ricorrente solfa, che pare blandire pure insospettabili lembi di cotanto presunto tradizionalismo, è che il cristianesimo sia un movimento giudaico, fondato sul regno messianico, che un cambiamento rapido e importante poi fece invece una religione accettabile per il mondo greco-romano e per l’umanità intera.
Sembrerebbe che ad imprimere questa svolta siano stati San Paolo, San Giovanni, San Giustino, Sant’Ireneo ed Origene.
Non fa difetto a questa interpretazione del fatto cristiano, il considerare naturalisticamente Cristo di origine puramente umana, è evidente. Infatti, considerandolo come un semplice mortale (Augias-Pesce), che vivendo col suo tempo e conoscendo perfettamente i difetti e i pregiudizi del suo popolo, desidera sollevarne le condizioni morali e si sforza di procurare loro un religioso rinnovamento, non si fa altro che avvalorare la tesi del “prolungamento” giudaico che sarebbe il cristianesimo, una sua sofisticazione.
San paolo avrebbe nei fatti creato la dottrina della preesistenza del Messia e formulato la teoria della redenzione. E il contatto con l’ellenismo dà motivo a San Giovanni di elaborare la sua dottrina del Verbo. Ciò che poi avevano iniziato gli Apostoli fu completato mediante le dottrine dei Padri della Chiesa del II e III secolo, imbevuti di filosofia platonica (Giustino, Ireneo, Origene); imbevuti di ellenismo, crearono il dogma cristologico. Ecco che si ottiene e si sforna la paccottiglia cristiana.
Si tratterebbe allora di dimostrare che la dottrina cristiana non trae origine dal giudaismo, coll’evidenziare che alcunché di nuovo fu aggiunto dalla Chiesa al contenuto di essa.

Usiamo un metodo infallibile: aggrediamo la tesi del coacervo di culture, secondo cui le speranze messianiche, frammiste alla mitologia pagana e alla filosofia greca, dovevano necessariamente produrre la religione cristiana; e che il giudaismo non è solo stato al cristianesimo di preparazione, ma lo avrebbe proprio procreato.
Basti considerare il solo mistero della Santissima Trinità per provare come la nuova rivelazione si elevi molto al di sopra del giudaismo. Non poche altre cose giudaiche, ad esempio il matrimonio, non potrebbero reggere il confronto con quelle insegnate da Cristo. Il cristianesimo non deve affatto alla cultura del tempo la sua origine e il suo sviluppo. Fu soltanto conseguenza e divina opera esclusiva di Cristo stesso.
Il fantasma del cristianesimo giudaico rappresentato da Pietro, cui si opporrebbe quello romano di Paolo, è alquanto evaporato. Secondo l’indole e lo scopo dei loro scritti comincia ad apparire innanzitutto presso S. Giovanni la figura divina di Cristo; presso San Pietro l’umana, quele tipo della sua vita santa; presso S. Paolo la pienezza del Redentore Dio-Uomo.
Paolo accentua la fede, Giovanni l’amore, Pietro la speranza; ma tutti non fanno che insegnare la dottrina che ricevettero da Cristo stesso, il cui divino contenuto era universale. Fu dunque la universalità del cristianesimo, come appare dalla prima predica di San Pietro alla Pentecoste, il mezzo per cui fu conquistato il mondo. Fu per questa sua specialità posseduta sin da principio di sua propria natura e di sua prerogativa di fronte al giudaismo particolareggiante e di fronte a tutte le altre religioni del mondo, che potè compiere ciò.
La Rivelazione contiene certe verità che la ragione naturale può comprendere, ma ne contiene altre che resteranno sempre segrete alla semplice natura umana. Gli attacchi dei dotti pagani e il bisogno che si sentiva di approfondire maggiormente il contenuto dottrinale della rivelazione, fecero sì che lo si sviluppasse scientificamente e lo si riconducesse a sistema. Nel fare questo lavoro intellettuale si dovette naturalmente tener conto di ciò che il mondo possedeva, quali elementi istruttivi, concetti e terminologia. E questo proveniva in gran parte dal mondo greco.
La connessione del cristianesimo con la filosofia greca era una fase dello sviluppo interno, fondata sulla natura delle cose. Il compito, l’obiettivo era creare un sistema dottrinale completo con i singoli detti di Cristo e le espressioni degli Apostoli, e di farlo pervenire ad un maggiore svolgimento ed a una forma più ordinata.
Non a caso, fuori della Chiesa, la comunanza del cristianesimo con la filosofia greca conduceva alle eresie.
Viceversa, sotto la direzione della Chiesa, essa era il ricettacolo, potremmo dire, nel quale la sostanza della dottrina cristiana trovava un’espressione che meglio si confaceva a quei tempi. Questo cristianesimo relativo alla seconda Corinzi 2,17, era secondo il contenuto sempre lo stesso.
Quando dunque si viene a parlare dello sviluppo della dottrina cristiana come se il contenuto o la natura di essa si fosse andata sviluppando gradualmente, tale affermazione non è storicamente falsa, ma contiene altresì una negazione della divinità sia di Cristo che del Cristianesimo.

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Ancora sull'ambiguità giudaica

Negli ultimi anni del giudaismo, poco prima della venuta di Cristo, quando Roma ormai aveva soggiogato la Palestina, gli spiriti eletti (chiamasi cime a Napoli) della comunità ebraica si chiusero (è proprio un vizio questo loro, giacchè, come nota il chiaro Messori, gli Ebrei stessi crearono i ghetti, perchè i gentili puzzavano e puzzano) anche più tenacemnente nella fedele osservanza della Legge e nell'ansiosa attesa del Messia.
I capi dei sacerdoti, custodi ufficiali della tradizione religiosa, e gli scribi, interpreti autorizzati della Bibbia, interpellati da Erode (siamo nel Vangelo di Matteo, cap. II) a cui ricorsero i Magi per conoscere la località dove sarebbe nato il Messia, non mostrarono nessuna meraviglia della richiesta e risposero senza esitare, citando pure il profeta Michea.
Simone, uomo onestissimo e timorato di Dio che incontrò il Divin Figlio nel Tempio, con fede incrollabile e con assoluta certezza sperava la prossima venuta del Redentore.
Giovanni Battista si manifesta come un eccezionale penitente e predicatore, e il popolo pensa subito che lui è il Messia promesso. Il Sinedrio manda una deputazione di sacerdoti e di leviti a chiedergli se fosse egli il Messia.
Andrea, che insieme a Giovanni, spinto dal Battista, si era messo al seguito di gesù, incontrando suo fratello Simon Pietro, gli confida tutta la sua gioia, dicendo: "Abbiamo trovato il Messia!". Stesse parole di Filippo a Bartolomeo: "Colui, di cui scrissero Mosè nella Legge e i Profeti, l'abbiamo trovato: Gesù il Nazareno" (mi collego alle parole che Gesù stesso dice di sè in Gv 5, 45-47: de me enim ille (Mosè, ndr) scripsit.
La Samaritana lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?". (Gv 4)
E quella folla stessa che lo accoglie alle Palme e lo vuole crocifisso il Venerdì?
E quei sommi sacerdoti che tramano di attentare alla vita del Nazareno e di Lazzaro?
Trama da romanzo poliziesco, se non fosse che è già un film visto. E dimenticato dalle cronache accademiche.

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Una salvezza, una religione, un Dio

Per l'appunto. Pare invece che si voglia far credere che ci sia una via privilegiata di salvazione per gli Ebrei, i quali sarebbero esenti da ogni Redenzione; e non piuttosto dire e credere che i Padri veterotestamentari furono in realtà i primi "cristiani", poichè credenti nel Messia promesso e nella ricostituzione dell'ordine perduto nell'Eden. Genesi e Deuteronomio sono disseminate di fede "cristiana", poichè Abramo e Mosè sono ben consapevoli di essere passaggi di un percorso che consegnerà lo scettro di Giuda a colui a cui spetta.
E il monito di Gv 5, 45-47 è severo: Si enim crederetis Moysi, crederetis forsitan et mihi; de me enim ille scripsit.
Non cè spazio alcuno per divagazioni: l'ebraismo non esiste! La storia della salvezza è, nasce e si sviluppa come cristiana, come prefigurazione e tensione dinamica in Veritatem.
Io preferisco vederlo al contrario: l'ebraismo è il protocristianesimo.
E tuttavia, ritengo la nozione ebraismo tutta culturale e meramente politica; designa cioè non il popolo eletto (assunto smentito peraltro dalla genealogia matteana che annovera addirittura la moabita Rut; ma anche dalla stessa Genesi con l'insistenza sulla posterità e sulla universalità della salvezza, di cui è strumento o mediatore storico Abramo), ma una società che va configurandosi sempre più come nazione: appare quindi sempre più deformato il disegno divino primigenio di Redenzione in chiave nazionalista ed esclusivista.
L'elezione è la garanzia di una potestà, piuttosto che vocazione all'Eden perduto.
Nell'Apocalisse di Baruc e nel Talmud è presentata come imminente la venuta dell'Eletto di Dio che sbaraglierà i nemici d'Israele, a cui tutto il mondo dovrà sottomettersi.
Tacito scrive nelle sue Historiae:
Molti erano convinti che fosse scritto in antichi libri sacerdotali che intorno a quel tempo
(parla della distruzione di Gerusalemme, ndr) l'oriente doveva divenire potente e i giudei impadronirsi del mondo (Hist., V-13).

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Lo scettro di Giuda

Il problema che gli ebrei non capiscono minimamente è che loro sono traditori della promessa di Dio ad Abramo.
Cosa mai avrà promesso ad Abramo?
In ben tre riprese (Gen 12,1-3; 18,18; 22, 16-18) Abramo riceve la promessa esplicita e solenne che la sua posterità servirà da strumento o da mediatore della salvezza per tutti i popoli.
La promessa è relativa al peccato originale, cosa che gli ebrei hanno dimenticato totalmente; non si capirebbe altrimenti la loro avversione al Redentore, in favore di un Liberatore.
Dio sceglie questo patriarca giusto, saggio, che pur vivendo nella idolatra Ur dei Caldei, non ha perduto la fede nell'unico Dio.
La promessa sarà ripetuta a Isacco (Gen 26,2-5).
E ancora a Giacobbe. Questi ai suoi figli, a sua volta, dà una benedizione speciale, servando a Giuda il primato e la superiorità politica sulle altre tribù dei fratelli.
Questo suo dominio però cesserà al giungere del Messia, il Re per eccellenza a cui realmente appartiene la potestà e al quale sarà soggetto non solo Israele, ma ogni popolo:

Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli. (Gen 49,10)

Mi pare di capire che gli ebrei di millenni fa, erano cristiani!
Quelli di oggi, sono solo vezzose infiorescenze nazionaliste.
Il Cristianesimo, pur avendo un legame con l'ebraismo, NON trae origine da esso, nè è un suo sviluppo.

Aggiungo dell'altro ad onor del vero.
Il Messia, soprattutto sotto l'influsso della scuola farisaica dopo la cattività babilonese, fu concepito come l'eroe di uno strepitoso risorgimento nazionale e il suo regno fu deformato e ridotto a un regno puramente terreno e politico, che doveva coincidere col predominio di Israele sugli altri popoli, costretti a servire e riverire. Insomma, questo nuovo regno avrebbe superato in splendore e potenza quello di Davide e di Salomone, e avrebbe addirittura restituito la felicità goduta dai nostri progenitori nell'Eden.
La figura del servo di Jahvè, umiliato e suppliziato per redimere gli uomini, siccome era sgradita all'orgoglio nazionale, venne lasciata in ombra, robetta da scaffali polverosi di qualche bibliotecario amatore.
Alla completa deformazione del messianismo. contribuì pure la letteratura apocrifa: scritti composti nei secoli II e I a.C. a imitazione delle autentiche Scritture e spacciati come autografi di qualche personaggio illustre come Adamo, Enoc, Mosè, Elia...
Specialmente nei Libri Sibillini e nei cosiddetti Salmi di Salomone si scorge come le speranze messianiche siano state deliberatamente imbellettate.
L'orgoglio razzista, sì, razzista, accentua in quei testi apocrifi l'aspetto tutto temporale e glorioso del Messia e ne ignora i dolori, le umiliazioni e la prefigurazione veterotestamentaria.

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domenica 24 febbraio 2008

Intervista a Giuliano Ferrara, Presidente dell'Associazione per la Difesa della Vita

Esempio preclaro di quanta insensibilità morale, frutto di una operazione di "normalizzazione" delle coscienze, vi sia nella società moderna e nella coscienza femminile.

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Limbo

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E' dogma di fede che i morti senza battesimo non conseguono la vita eterna nel regno dei Cieli, cioè la vita di Grazia e di Gloria, ossia la soprannaturale visione beatifica di Dio; ma bensì conseguono la dannazione eterna, per cui sono in eterno esclusi dal Regno dei Cieli.
Questa verità fu proclamata dal Concilio di Lione e dopo dal Concilio di Firenze con queste parole:

Credimus illorum animas, qui in mortali peccato, vel solo originali, decedunt, mox in Infernum descendere, poenis tamen disparibus puniendas.

Gli Agostiniani insegnano che la dannazione eterna importa per i bambini sia il dolore della privazione della visione beatifica, sia la pena del senso anche se mite.
S. Agostino a ciò dice:

Mitissima sane omnium poena erit illorum, qui praeter peccatum, quod originali traxerunt, nullum insuper addiderunt.

Opinione peraltro seguita anche da altri.
Al contrario i Tomisti, seguendo i Padri Greci, S. Bernardo, S. Bonaventura, Duns Scoto e S. Tommaso, insegnano che non patiscono nessuna pena del senso.
S. Tommaso la dimostra in questo modo (sintetizzando): la pena deve essere proporzionata alla colpa. Ora, nel peccato attuale si trovano due malizie: l'una è l'avversione a Dio; l'altra è la conversione al bene commutabile, cioè la creatura.
Per la prima malizia, si deve al peccatore la privazione della visione beatifica di Dio; per la seconda, ad esso si deve la pena del senso.
Sentiamolo dalla sua bocca:

Poena proportionatur culpae; et ideo peccato actuali mortali, in quo invenitur aversioab incommutabili bono, et conversio ad bonum commutabile, debetur et poena damni, scilicet carentia visionis divinae, respondes avversioni; et poena sensus, respondens conversioni.

Ma nel peccato originale non est conversio, sed sola aversio.
Quindi giungiamo a definire che non soffrono della pena del senso; insomma, non si punisce mai uno per essere egli abituato al furto, osia solo per averne l'abitudine, ma perchè commette l'atto di rubare.
Ma i Tomisti si spingono anche oltre: i bambini morti senza il lavacro sacramentale non patiscono nessuna privazione della visione beatifica.
Affinchè uno patisca per la perdita di un bene, sono necessarie due cose:
1) che egli conosca quel bene, di cui è rimasto privo;
2) che egli sappia che quel bene gli era destinato.
I bambini morti senza battesimo, secondo il Tomismo, non conoscono, ma ignorano completamnente il bene della visione beatifica: ignorano cioè che questa sia possibile all'uomo e, di conseguenza, che questo bene fosse stato da Dio destinato all'uomo in termine.

  • Non potrebbero certo coll'uso della ragione, giacchè questa per natura è impossibile che ricavi la cognizione di verità e cose soprannaturali.
  • Non per mezzo di Rivelazione, giacchè questa è inutile se non serve più per far conoscere a loro un bene possibile a ottenersi.
  • Vogliamo forse supporre che Dio faccia ad essi la Rivelazione di un bene solo per il fine di procurare ad essi dolore per non poterlo conseguire?
1) Il fine della Rivelazione non è quello di punire, ma di far conoscere un bene soprannaturale.
2) La Rivelazione, imponendo all'uomo di credere a verità soprannaturali, suppone nell'uomo una virtù soprannaturale, in esso infusa o dalla grazia attuale o dal Battesimo.

Domanda (seguo sempre la Tradizione e i Tomismo):
i bambini mancando della virtù sopèrannaturale per credere alla rivelazione, mancando dell'abito di fede, perchè essi non hanno ricevuto il Battesimo, nè a loro Dio ha concesso grazia attuale essendo loro in termine; ebbene, per quale arzigogolo teologico o dottrinale andrebbero in Paradiso?
Resta anche il fatto che mancando di ogni cognizione, i bambini morti senza battesimo non hanno nemmeno cognizione del loro stato misero, in relazione allo stato dei Beati.

S. Tommaso: Animae puerorum naturali quidem cognitione non carent, qualis debetur animae separatae seciundum suam naturam; sed carent supernaturali cognitione, quae hic in nobis per fidem plantatur; eo quod nec hic (presente vita, ndr)
fidem habuerunt in actu, nec sacramentum fidei susceperunt.

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Il Sud e l'Immacolata Concezione

Si parla di Immacolata Concezione.
Sì, ma il reame Duosiciliano che c'entra? Ahi, i sussidiari....
C'entra, eccome! Perchè in occasione di una definizione tanto importante, esattamente come fece Pio XII qualche anno prima della Sua Munificentissimus Deus, Pio IX con l'enciclica Ubi Primum del Febbraio del '49 "sondò" la pietà e il credo popolare. Badiamo bene alla data: 2 Febbraio 1849.
Siamo a Gaeta, signori, città del Regno delle Due Sicilie grazie a cui Pio IX restò Pio IX, alla faccia di Mazzini. Ma qualcuno non sa cosa sia la repubblica mazziniana; vabbè, è un'altra storia.
Ma torniamo a noi con somme sorprese: le risposte furono all'unanimità affermative e una grande propulsione alla opportunità del dogma venne dal partito meridionale delle Due Sicilie. Avendo il Pontefice convocato personalmente almeno 2-3 vescovi per ciascuna nazione e non tuttavia vietando la spontanea presenza di ulteriori altri, avvenne che dal Reame del Sud giunsero a corroborare la tesi secondo cui fosse dottrina rivelata: il Cardinale Arcivescovo di Capua, il Cardinale Arcivescovo di Napoli, i Vescovi di Chieti, Manfredonia, Anastasiopoli (in partibus), L'Aquila, Lipari, Tursi, Oppido, Sessa, Policastro, Nocera e Nusco.
Che squadra!
Inutile dire i dolori di pancia che vennero a certi ambienti nordici che facevano merenda e colazione coi protestanti. Mah...
Fu anche in quella occasione che storicamente viene affermandosi il dogma della infallibilità pontificia, poichè quell'atto "unilaterale" (si fa per dire) fu permesso e sostenuto sì efficacemente da essere sostrato del prossimo Concilio Vaticano I.
Viva Pio IX, viva il Regno delle Due Sicilie!



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A proposito di debiti

L'Italia è uno dei paesi più indebitati al mondo, si sa.
Qualche pacione buontempone attribuisce la colpa ai sudici terroni (che però hanno arricchito le Americhe e i vari Nord) e alle politiche assistenzialiste (e sempre il sud è comunque colpevole).
Insomma, 'sto Sud non serve ad una mazza (dopo che però una volta, fino all'unificazione, l'emigrazione era addirittura al contrario, dal Nord verso il Sud).
Ma, carta canta, è bene ogni tanto prendere a schiaffi i cervelli di quei buontemponi di cui sopra, anche solo per ricordare che l'antico vezzo del mal governo è di estrazione sabauda e tutta nordica...E non serve nemmeno un commercialista per capire i dati.



Se osservate bene, gli unici momenti in cui a Napoli si è scialacquato, guarda caso, erano anni di rivoluzioncelle preparate da gentaglia tipo mazziniani e carbonari. Ergo, lo Stato aveva bisogno di spendere un po' più del solito...

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I "Carabinieri" del Re di Napoli

Segnalo (senza aggiungere nulla, perbacco!), un ottimo studio che prendo pari pari dal numero di Febbraio del mensile Le Fiamme d'Argento, a cura dei veterani dell'Arma dei Carabinieri.

del Gen. Andrea Castellano

Nei secoli XVIII e XIX, in Italia, il moto migratorio non avveniva dal Sud verso il Nord, ma al contrario poiché, all’epoca, il Meridione d’Italia (in particolare la Campania e la Sicilia) per clima, bellezze naturali, fertilità della terra, stabilità politica ed abbondanza di manodopera, era diventato un angolo di paradiso per quanti desideravano una migliore qualità di vita o rendere più florida la loro posizione economica.
In questa corsa verso il Sud, i più numerosi furono gli svizzeri. I primi arrivarono nella seconda metà del settecento come mercenari. L’arruolamento, detto: «Capitolazione», avveniva direttamente con i rappresentanti dei vari Cantoni. I mercenari svizzeri per capacità, disciplina ed affidabilità,erano i più richiesti dai regnanti, anche dal Papa. Il 20 agosto 1859, il Generale napoletano (da non confondere con Ferdinando Nunziante, altro Generale, ma onesto, NDR) Alessandro Nunziante (Aiutante del Re e suo intimo consigliere) forse per togliere alla monarchia, in previsione del suo tradimento,truppe fedeli e bene addestrate convinse il Sovrano (Francesco II), a sciogliere tutti i Corpi svizzeri (quattro Reggimenti).
Il Re, tuttavia, su consiglio del Generale elvetico Giovan Luca Von Mechel (un Ufficiale coraggioso ed ostinato) istituì la Brigata «Von Mechel», composta da mercenari svizzeri ed articolata su tre Battaglioni di «Carabinieri». Questi, però, avevano in comune solo il nome, con quelli di Vittorio Emanuele II. È probabile che il Sovrano li volle chiamare così, anche perché affascinato dalla già nota validità di quelli piemontesi.
In ogni modo i Carabinieri del Regno di Napoli, non tradirono le aspettative di Francesco II perché si batterono come leoni, sui campi di battaglia ed in altre occasioni (evidentemente l’appellativo «Carabiniere» è ovunque e comunque sinonimo di dedizione, ardimento e forza d’animo). Il loro valore e fedeltà si manifestò,in particolare, il 28 maggio 1860 quando furono impiegati nei combattimenti a Corleone (Palermo) e nel Capoluogo siciliano (a Porta Termini).
Il 31 successivo, il vecchio Generale napoletano Ferdinando Lanza, nonostante una grande superiorità numerica firmò,incomprensibilmente (ma non molto, alla luce della sua minore fedeltà al Sovrano),la resa di Palermo e pochi giorni dopo quella della Sicilia. Tale capitolazione fu sfavorevolmente commentata anche all’estero ed il giornale umoristico francese:«Chiarivari», pubblicò un «cartoon»nel quale erano raffigurati un soldato, un ufficiale ed un generale dell’esercito borbonico. Il primo aveva la testa di un leone,il secondo quella di un asino ed il terzone era completamente privo. Dopo le«esperienze» siciliane, i Carabinieri napoletani fecero ritorno sul Continente combattendo, ancora una volta intrepidamente,a Caiazzo (Caserta), Dugenta (Benevento) ed a Maddaloni (Caserta). I loro ultimi scontri armati avvennero a Gaeta (Latina) dove tramontarono, definitivamente,le speranze di salvare il più antico Regno d’Italia. Anche in questa circostanza, nel caos generale, i Carabinieri del Re di Napoli agirono da protagonisti e superando numerose difficoltà scortarono, fino a Roma, personaggi di rilievo e fra questi il Generale Vial, Governatore di Gaeta e lo stesso Generale Von Mechel che, malato, aveva ceduto il comando della Brigata Carabinieri al Colonnello de Mortillet.
Nel XVIII secolo, gli svizzeri giunti nel Meridione d’Italia non furono solo mercenari, ma pure imprenditori, artisti, architetti,ricercatori, tecnici, banchieri,orologiai, commercianti ed anche pasticcieri. Questo spiega perché ancora oggi, in qualche città del Sud, troviamo aziende od esercizi commerciali con nomi della svizzera tedesca. Il caso più sensazionale è certamente quello del bernese Theodor Von Vittel, venuto nel Capoluogo Campano come tecnico ferroviario. Inseguito sposò Rosetta Inserillo, una graziosa «guagliona» partenopea figlia di un «maccarunaro» (produttore di pasta alimentare).Dopo il matrimonio, il sig. Von Vittel incominciò lavorare nell’azienda artigianale del suocero, sviluppandola sotto il profilo tecnico, senza trascurare la qualità del prodotto: i maccheroni! Infatti, mise in atto l’accorgimento, dimostratosi molto valido, di trafilarli con lo scirocco ed asciugarli con la tramontana. Quando la produzione del pastificio Von Vittel incominciò a diventare ragguardevole,l’interessato intuì che nel Meridione una pasta alimentare con un nome tedesco,non poteva aveva molto futuro e di conseguenza, nel 1879, «napolitanizzò» il nome in «Voiello», facendo tanta fortuna.
In conclusione, tra Carabinieri, artisti, imprenditori, pastai, ecc., gli svizzeri immigrati nell’Italia Meridionale hanno lasciato un buon ricordo, «onorato» anche dagli eredi che ancora vivono nell’«Eden» «scoperto» dai loro progenitori.

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La modernità

Anzitutto il moderno si costituisce per noi attraverso una frattura, che non definisce soltanto il modo in cui si origina (come frattura rispetto alla tradizione e quindi come interruzione della continuità storica), bensì anche il suo stesso modo di essere. Al suo interno, infatti, dominano i fenomeni della discontinuità. Frammentazione, interruzione, senso di precarietà sembrano descrivere, in particolare, l'esperienza che l'uomo contemporaneo fa di sè e del suo mondo.
[C. Ciancio, U. Perone, Cartesio o Pascal - Un dialogo sulla modernità, Rosenberg & Sellier 1995]

La modernità come frattura, dunque.
E dalla collocazione sull'asse diacronico del moderno dipende inevitabilmente anche il giudizio che su esso formuliamo. Alcuni preferiscono farlo iniziare nel 1559, con la pace di Cateau-Cambresis, perchè essa chiuse la serie di guerre, quasi una sola interminabile guerra, iniziata nel 1494 con la discesa in Italia di Carlo VIII, e aprì il lungo periodo della preminenza spagnola in Europa e della dominazione straniera in Italia (anche se qui le sorti si erano decise un po' di anni prima sia nel reame del Sud, sia a Pavia nel '25, sia a Roma nel '27).
La letteratura, a mio parere, più delle discipline filosofiche, riflettono lo iato.
Il romance (le classiche forme narrative dell'antichità), come analogia dell'innocenza, è caratterizzato da una forte spinta alla sublimazione, alla trasfigurazione onirica, alla costruzione di un mondo ideale in cui i buoni sconfiggono i cattivi e la virtù trionfa sempre sul vizio. L'archetipo complanare è appunto il paradiso terrestre (età dell'oro), mentre le sue immagini rimandano a valori sublimati come la castità, l'umiltà, la mansuetudine, la devozione. E' certamente un mondo popolato di cavalieri senza macchia, di eroine perseguitate, di vecchi saggi, di spiriti, di agnelli, di farfalle, di castelli e di riposanti specchi d'acqua.
Nel novel (romanzo moderno), questo atteggiamento idealizzante non viene respinto in modo assoluto, ma può essere assorbito (Don Chisciotte lo dimostra) soltanto come residuo, come contrappunto ironico, come eccezione.
Robinson Crusoe è forse il primo personaggio letterario a pagare la propria libertà con l'incertezza del destino e con un'inarrestabile inflazione di senso. Con lui, il nuovo borghesotto, prototipo della età moderna, constata l'esplosione dei codici feudali e l'apertura di una impressionante potenzialità di vita. La parabola storica di Napoleone è molto indicativa: il rischio maggiore è lanciarsi sui sentieri del possibile e di doversi accorgere, un giorno, che quei sentieri non conducono proprio a niente.
La modernità inaugura un nuovo tipo di romanzo: i suoi "eroi" sono ora dei "cercatori", e lo schema principale delle loro azioni è ancora l'archetipo della ricerca, della quest. Ma non una ricerca di tesori, nè di nobili virtù: l'eroe moderno è proprio impegnato in una ricerca di senso.
In filosofia, a mio avviso, la frattura rigurda soprattutto il rapporto con l'esperienza cristiana della verità. La tensione tra ragione filosofica e cristianesimo appare come uno dei tratti distintivi della nostra civiltà. E la frattura ha di fatto portato la filosofia alla proclamazione della propria completa autonomia e alla critica più distruttiva nei confronti del cristianesimo.
Ma, d'altra parte, persino la teologia cristiana si è spinta fino alla rivendicazione dell'assoluta originalità del cristianesimo rispetto alla ragione filosofica.
Il tomismo è l'antidoto a questi due istmi: a) la ragione moderna, quando tenta di emanciparsi da ogni influsso cristiano, rischia di perdere la sua portata speculativa o di estinguere la filosofia nel pensiero scientifico; b) il cristianesimo ha potuto evitare gli integralismi e i fondamentalismi proprio perchè ha sempre fatto i conti con la ragione.
E' uno schiaffo agli sciattoni della filosofia e della teologia d'oggi. Ed è bene servirsi degli "emendamenti" didattici di un Papa quale Benedetto XVI, in questo molto attento e impegnato.
Aggiungo soltanto un archetipo.
Nel Fu Mattia Pascal di Pirandello, il protagonista, a colloquio con un sacerdote, tracciato un quadro nero del presente, ne dà la colpa simbolicamente a Copernico:
"Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità."
E gli spiega che "quando la terra non girava, l'uomo vestito da greco e da romano vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sè", mentre poi "tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'universo...
Che differenza con la Divina Commedia.

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L'interrogativo Sarpi

Il fatto è che ho sempre provato a capire cosa stesse nelle intenzioni del frate a muovere tanta acrimonia e sberleffi all'indirizzo della sua Madre. Confesso che questa mia è un accenno di risposta, nemmeno tanto dettagliato, nemmeno così comprensivo, poichè forse da affidarsi è alle nuove scienze psicologiche ciò che solitamente si è relegato alla macchina della storiografia.

Un uomo, un religioso, un teologo: cosa può muovere costui non già ad esprimere il dissenso (lo avevano fatto in tanti, come Lutero), ma, pur figlio di quella Madre che è la Chiesa, ad irridere con frizzi, lazzi, fiele, motteggiando su augusti Misteri?
Siamo all'indomani del Tridentino, e ieri l'altro v'era Lutero. Senza scendere nei dettagli grandiosi e nei contenuti santi di quel Concilio, che tutti conosciamo, fermo qui la tastiera a rendere conto di prìncipi benemeriti della Fede cattolica, così da capirci forse qualcosa di quello di cui sopra.
L'Italia stessa provò qualche brivido di febbre eretica, eppure la nostra penisola restò fedele alla Chiesa. Non mancarono inviti all'eresia in nome della libertà e della emancipazione della ragione, ma la ragione istessa, esclama Cesare Balbo, non certo aveva bisogno che venisse Lutero ad emanciparla dopo la ridente fioritura letteraria e scientifica, sponsorizzata, si badi, dalla Chiesa, del '300 e del '500.
Il merito di aver opposto barriere all'eresia spetta agli Ordini, vecchi e nuovi, agli apologisti, ai Pastori, agli Italiani stessi, così intimamente religiosi, così felicemente disposti (ahi, Italietta dei Santoro, Capezzone e Boselli...) a distinguere le istituzioni dalle persone. Pare sia un popolo euritmico, dall'espressione gioiosa e plastica dei sentimenti interni. Io ci credo.
E non vanno dimenticati i prìncipi cattolici che collaborarono fattivamente: il Duca Emanuele Filiberto e il figlio Carlo Emanuele I, i quali vegliarono sui Valdesi che abitavano da tempo le valli del Chisone e del Pellice. Ginevra per poco non fu assoggettata da Carlo Emanuele.
Vigili furono anche i Medici. Cosimo I meritò di essere incoronato granduca da Pio V.
La limitrofa repubblica di Lucca intimava ai lucchesi residenti all'estero di vivere da buoni cattolici; nota stonata fu però proprio quel Diodati, lucchese, autore di un'infedele versione della Bibbia.
La Spagna era pure allineata in questa santa battaglia; merito però offuscato dal pessimo suo governo, soprattutto in meridione (!); vicerè e governatori trattavano come terre di conquista province un tempo floride.
Venezia invece governava sapientemente i suoi popoli. Religiosissima, era anche gelosa nel tutelare le prerogative dello stato di fronte a privilegi e immunità ecclesiastiche. Inevitabile lo scontro con Roma, e con Paolo V.
La Serenissima esigeva il beneplacito del Doge per la costruzione di nuove chiese e nuove case religiose. Nel 1606 imprigionò due ecclesiastici per reati comuni, al che Paolo V intimò di consegnarli al nunzio sotto pena di scomunica.
Venezia non si piega; anzi invita il clero secolare e regolare di fregarsene. Tutti obbediscono tranne Gesuiti e Cappuccini (nati da poco però già pimpanti) che vengono dunque espulsi.
Ecco qui che interviene il nostro Paolo Sarpi: Venezia muove una straordinaria campagna di diffamazione e propaganda, affidando appunto al frate servita le sue ragioni, con la collaborazione dell'altro servita Fulgenzio Micanzio.
La propaganda del Sarpi è volgare e tutta inscritta nel filone indipendentista/ghibellino. Si volle insomma che Sarpi osteggiasse la Roma politica, la corte, la curia, non la Chiesa e la sua dottrina.
Ma in realtà, proprio perchè le strade dell'Inferno sono lastricate di buone intenzioni, i documenti della storia dimostrano che il cattolico Sarpi era in rapporto con gli eretici di Ginevra e tentò di introdurre a venezia il calvinismo.
La sua Storia del concilio tridentino non è una storia, è una parodia della più insigne assemblea degli ultimi secoli.
Perchè tanta acrimonia? Perchè proprio da un cattolico?

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sabato 23 febbraio 2008

Il vincolo del Matrimonio

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Oggi come mai, è sempre meno chiaro il senso e il perché di un Matrimonio. E ancor meno perché lo Stato sarebbe interessato a questo tipo di negozio familiare.
Procedo per gradi.
Ci sono vari modi di intendere l’essenza del Matrimonio: 1) l’essenza consiste nel mutuo consenso dei contraenti espresso con parole o segni visibile; 2) l’essenza consiste nell’uso dello stesso, ossia nella copula coniugale; 3) l’essenza consiste nel legame e vincolo spirituale.
La prima non può ammettersi, giacchè il consenso è passeggero, è un atto transitorio, oggi c’è domani forse no; e invece il Matrimonio richiede uno stato permanente, continuo. Piuttosto il consenso è la causa del Matrimonio, ma non è la sua essenza: i tomisti direbbero che la causa producente l’effetto non è l’essenza dell’effetto stesso.
Nemmeno la seconda può ammettersi, giacchè l’uso del coniuge e il diritto ad essere “arbitro dell’altrui corpo” (S. Paolo) non è altro che una conseguenza derivante dall’essenza stessa del matrimonio, ma non è l’essenza. La quale dunque è da ricercare ancora altrove.
Non resta che la terza, poichè il legame o vincolo spirituale nasce dal consenso e produce il diritto all’uso del coniuge, ed è continuo e permanente.
Questo è dimostrato dal fatto che la Chiesa ha sempre ritenuto valido il Matrimonio tra la Vergine Maria e S. Giuseppe, nonostante fosse mai intervenuto l’uso del Matrimonio stesso.
A proposito, la Chiesa ha sempre ritenuto legittimo l’uso del coniuge, è di Fede: S. Agostino prova ciò non solo con la Scrittura (Gen 1,28 et 1Cor 7,3), ma anche con la presenza stessa di Gesù a Cana.
Il Matrimonio fu istituito quale Sacramento da Cristo stesso, e la tesi è di Fede, così definita dal concilio di Trento:

Si quis dixerit matrimonium non esse vere et proprie unum ex septem Legis evangelicae sacramentis a Christo Domino istitutum, seda b ho minibus inventum, neque gratiam conferre: anatema sit! (Sessione 24, Can. 1)
Leggendo il capitolo 11 del vangelo giovanneo, capiamo alcune cose: 1) che Gesù con la Sua presenza dimostrò tali nozze essere oneste e lecite; 2) fu allora che Cristo innalzò il matrimonio alla dignità sacramentale. A tal proposito, stupendo è il commento di S. Epifanio all’episodio, dicendo che Cristo intervenne alle nozze di Cana ut quod deerat, emendaret; ac iucundissimi vini suavitate mulceret et gratia: cioè, intervenne alle nozze per correggere , ossia per aggiungere quod deerat, quello che mancava, fino allora, alle nozze; per aggiungere la Grazia al contratto di nozze. E ancora, per addolcire, alleggerire il peso dello stato coniugale con la Grazia, simile alla dolcezza del vino.
Non c’è dubbio alcuno che nella Chiesa, sia greca che latina, in tutti i secoli e in tutti i luoghi, si è sempre considerato e praticato il Matrimonio come un vero e proprio Sacramento producente la Grazia. Appare chiaro dai libri rituali e sacramentali, che fra i sette Sacramenti annoverano sempre il Matrimonio; dal Concilio di Firenze, che nel decreto pro Armenis dichiara di considerare il Matrimonio quale Sacramento settimo.

Restando puramente e doverosamente in ambito cattolico, è da dirsi che nel Matrimonio non vi è nessuna distinzione fra contratto naturale e Sacramento. Soprattutto nell’Ottocento, così caro alla sinistra libertaria e neorisorgimentale, alcuni giuristi, volendo sottomettere il Matrimonio alla potestà laica (ricordo che ciò è avvenuta per opera del governo sabaudo) e sottrarlo alla potestà ecclesiastica, proponendo il matrimonio civile, insegnavano la separabilità del contratto dal sacramento: ne traevano la conseguenza che il matrimonio civile era vero contratto naturale, vero e onesto matrimonio. Il Matrimonio rischiava dunque di sottrarsi alla giurisdizione della Chiesa e sottoporsi, nella sua sostanza, alla giurisdizione della potestà civile, con conseguente dissacrazione, laicizzazione del principio e origine della famiglia, per poi procedere alla naturalizzazione della stessa e della società di cui essa è nucleo primo. Operazione strategica, senza dubbio.
Ma la tesi contraria è di Fede, avendo Papa Pio IX nella allocuzione del 27 Settembre 1852 stabilito che nessun cattolico ignora o può ignorare che il Matrimonio è vero Sacramento da Cristo istituito e che non vi sono più matrimoni.
V’è poi la Proposizione 66 del Sillabo, condannata sempre dallo stesso Pontefice.
Quindi, ed è di Fede anche questo, nonché sancito nello stesso decreto di Eugenio IV pro Armenis del Concilio di Firenze, il mutuo consenso è la causa che produce il Matrimonio, ossia il contratto di Matrimonio, dunque il Sacramento stesso (poiché coincidono). Il consenso dei coniugi, indipendentemente da ogni benedizione sacerdotale, produce il contratto naturale che è il Sacramento; il contratto è diventato produttore di Grazia, cioè sacramento; il contratto è lo stesso Sacramento: quindi fra contratto e sacramento non vi è nessuna distinzione di sorta.
Il Concilio di Trento, nel Proemio sul Matrimonio, paragona il Matrimonio nella Nuova Legge, cioè nella Chiesa di cristo, con il Matrimonio nella Legge Antica, di Mosè; è cioè un paragone di due contratti, l’uno nella Chiesa, l’altro nella Sinagoga. Ma dice che il primo è superiore in eccellenza, in dignità al secondo. Perché? Per motivo della Grazia, la quale, per mezzo di Cristo, il primo conferisce, mentre il secondo non la conferiva.

Qui mi fermerei per venire un po’ a oggi e trovare corrispondenze normative.
Il Matrimonio come contratto è così stesso contemplato dal Canone 1055: §1. Il patto matrimoniale con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita …
In questa direzione pure il Canone 1057: § 1. L'atto che costituisce il matrimonio è il consenso delle parti manifestato legittimamente tra persone giuridicamente abili; esso non può essere supplito da nessuna potestà umana.
A confermare l’essenza del Matrimonio di cui parlavo più su, la sua definitività, ancora il canone 1057: - § 2 Il consenso matrimoniale è l'atto della volontà con cui l'uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio.
Il Matrimonio è vero contratto, quindi; produce la essenza nel vincolo spirituale permanente; dispone i seguenti fini: Il patto matrimoniale con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole (Can. 1055 - §1).
Proprietà essenziali al raggiungimento dei quali sono l’unità e l’indissolubilità.
L’unità del Matrimonio consiste nel fatto che un solo uomo abbia per moglie una sola donna nel tempo stesso, e così una sola donna abbia per marito un solo uomo nel tempo stesso. I riformatori (si fa per dire) del XVI secolo sostennero che la poligamia era lecita, almeno in caso di necessità. Il Concilio di Trento condannò tale tesi nella Sessione 24, Can.2.
Cornelio A Lapide spende molte righe nei suoi Commentaria per interpretare e spiegare il capitolo 10 di Marco, dalla cui retta lettura si ricavano frutti di chiarificazione. Si chiede a Gesù se ripudiando una donna, il marito di quella possa contrarre licite et valide Matrimonio con altra donna. Nella Sua risposta, Cristo cita il Matrimonio istituito tra i primi Padri, Adamo ed Eva nell’Eden; dimostra, cioè, che il Matrimonio, in origine, per istituzione di Dio, doveva essere tale, che due fossero in una sola carne, che due costituissero come un solo individuo, quindi, che due soltanto costituissero il Matrimonio. L’uomo dunque non ha nessuna libertà, nessun diritto di sciogliere l’unione matrimoniale. Ma i Farisei incalzano Gesù e oppongono al suo discorso la liceità data loro da Mosè.
Fantastica e schiacciante è la risposta di Gesù: ad duritiam cordis vestri permisit vobispraeceptum istud! (Porca miseria!); cioè, Mosè permise il divorzio anche quoad vinculum, perché la poca virtù degli Ebrei non avrebbe potuto sostenere il peso della unità e indissolubilità del Matrimonio di cui ho detto prima.
L’indissolubilità significa che il Matrimonio non può sciogliersi mai.
Cercherò di occuparmi della indissolubilità quoad vinculum, cioè concernente il vincolo in sé.
Bisogna allora chiedersi se il Matrimonio non sia insolubile per diritto naturale (e noi che siamo credenti diciamo per diritto divino), oppure per diritto ecclesiastico.
Eugenio IV nel Decreto pro Armenis, e con lui il Concilio di Firenze, dichiara di non esservi possibilità alcuna di dissoluzione a causa della analogia con il Matrimonio tra Cristo e la Chiesa: propter hoc quod significat indivisibilem unionem Christi et Ecclesiae. E Pio IX condannò nella num. 67 la proposizione del Sillabo che prevedeva appunto lo scioglimento del vincolo mediante l’autorità civile.
Adamo stesso proclamò l’indissolubilità del Matrimonio esclamando, quando Dio gli presentò Eva ed istituì il Matrimonio: os ex ossibus meis, et caro de carne mea (osso dalle mie ossa, e carne dalla mia carne); ma anche Gen 2,23.24); il marito e la moglie, in forza del contratto coniugale, sono divenuti una sola persona, duo in carne sola. Il Matrimonio è indissolubile per diritto naturale quindi; eccetto che per causa della morte sopraggiunta di uno dei due. E’ indissolubile per diritto non solo naturale, ma divino: non già perché Dio è autore della natura, ma perché Adamo lì proferisce quelle parole per ispirazione di Dio. Così interpreta infatti il Concilio di Trento nel Proemio della Sessione 24.
Solo la morte, nessun’altra causa può sciogliere quel vincolo; cosicchè, se uno dei coniugi tenta di infrangere il vincolo col passare ad altre nozze o altre relazioni, si affanna a realizzare qualcosa di irrealizzabile: egli commette delitto di adulterio! E’ San Paolo a confermarlo: vivente viro, vocabitur adultera! (Rom 7,3)
Il vincolo può sciogliersi tuttavia stanti i seguenti difetti: inconsumazione e Fede.

Per l’inconsumazione, appurato che vi sia giusta causa, il diritto contempla: Il matrimonio non consumato fra battezzati o tra una parte battezzata e una non battezzata, per una giusta causa può essere sciolto dal Romano Pontefice, su richiesta di entrambe le parti o di una delle due, anche se l'altra fosse contraria (Canone 1142).
Per i difetti che occorrono quoad fidem dobbiamo distinguere il privilegio paolino e il privilegio petrino.
Privilegio Paolino: Can. 1143 - §1. Il matrimonio celebrato tra due non battezzati, per il privilegio paolino si scioglie in favore della fede della parte che ha ricevuto il battesimo, per lo stesso fatto che questa contrae un nuovo matrimonio, purché si separi la parte non battezzata.
§2. Si ritiene che la parte non battezzata si separa se non vuol coabitare con la parte battezzata o non vuol coabitare pacificamente senza offesa al Creatore, eccetto che sia stata questa a darle, dopo il battesimo, una giusta causa per separarsi.
Privilegio Petrino: uno dei due coniugi si converte alla fede cattolica; è accertata l’impossibilità di ricostituire la comunione di vita coniugale; sussiste una giusta causa.
Can. 1148 - §1. Il non battezzato che abbia contemporaneamente più mogli non battezzate, ricevuto il battesimo nella Chiesa cattolica, se per lui è gravoso rimanere con la prima di esse, può ritenerne una qualsiasi licenziando le altre. Lo stesso vale per la moglie non battezzata che abbia contemporaneamente più mariti non battezzati.

Can. 1149 - Il non battezzato che, ricevuto il battesimo nella Chiesa cattolica, non può ristabilire la coabitazione con il coniuge non battezzato a causa della prigionia o della persecuzione, può contrarre un altro matrimonio, anche se nel frattempo l'altra parte avesse ricevuto il battesimo, fermo restando il disposto del can. 1141.
In altri casi, il diritto prevede la separazione in permanenza del vincolo:
Can. 1151 - I coniugi hanno il dovere e il diritto di osservare la convivenza coniugale, eccetto che ne siano scusati da causa legittima: l’adulterio; il grave pericolo cui uno dei due coniugi esponga il bene spirituale o corporale dell’altro o della prole; il fatto che uno dei due sposi abbia reso troppo dura la vita comune all’altro o ai figli.
Vista quindi la estrema densità semantica, consentitemi, del termine Matrimonio, non guasterebbero nemmeno alcune note di riflessione circa la sua efficacia sociale.
Proprio lo Stato liberale, quello cioè configurato con il minimo di interventi centrali e il massimo di azione cittadina, dovrebbe riconoscere e promuovere i soli negozi che contribuiscono al bene sociale; le sole attività che producono utile sociale: e tra queste primamente la procreazione, l’allevamento e l’educazione dei figli assicura alla società la sua stessa sopravvivenza.
Quando ho parlato dei principi essenziali del Matrimonio, unità e indissolubilità, inevitabilmente ho preparato il terreno a questa parte del mio scritto che dimostra essere quelli i requisiti idonei, propizi a che avvenga la cosiddetta “educazione del cittadino”: una vita associata caratterizzata dal vincolo, dalla stabilità, dalla unità.
Le unioni di fatto, sia etero e omosessuali, per loro stessa natura sono caratterizzate da volatilità e affidate al capriccio o al desiderio autoreferente: infatti i soggetti che compongono tali unioni hanno deliberatamente e appositamente scelto di non impegnarsi con nessun contratto, nessun sinallagma.

Lo Stato ha bisogno di garanzie e, pur la crisi in cui i contraenti possano incorrere, il Matrimonio resta l’istituto più convincente, forte, carico di garanzie che la società abbia saputo produrre. Il filosofo Samek Lodovici spiega bene che il Matrimonio prevede che i coniugi si assumano delle responsabilità in modo pubblico e formale, si assumano dei doveri verso il coniuge e verso i figli, il cui rispetto può essere rivendicato anche giuridicamente; nelle forme alternative di vincolo, così tanto in voga oggi, lo Stato apre una obbligazione nei confronti dei conviventi, mentre questi non assicurano alcun “ritorno” sociale allo Stato. E’ proprio lo Stato liberale che dovrebbe dire no, e lasciare che i singoli cittadini si autodetermino affettivamente, al di fuori del contratto matrimoniale, come credono e senza alcuna partecipazione obbligazionaria dello stesso. Lo Stato liberale, infatti, dovrebbe mai dimenticare, pena la sua estinzione, ciò che Aristotele nella Etica Nicomachea afferma: la famiglia è qualcosa di anteriore e di più necessario dello Stato.

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giovedì 21 febbraio 2008

Principi assistenti al Soglio

Fino alla riforma della Famiglia Pontificia, decretata da Paolo VI con il Motu Proprio Pontificalis Domus del 28 marzo 1968, la più elevata dignità laicale della Cappella Pontificia era quella di Principe Assistente al Soglio Pontificio.

Già anteriormente al secolo XV godevano questo onore il Praefectus Urbis, il Senatore di Roma, il Vessillifero, gli Ambasciatori dei Sovrani.
Come rappresentanti della nobiltà romana in questo ufficio, da Giulio II furono designati i capi delle famiglie Orsini e Colonna, decisione confermata da Sisto V e Clemente XI. Per ovviare alle controversie sulla precedenza, il Sommo Pontefice Benedetto XIII decretò l'alternativa tra i due capi di famiglia.
Il Principe Assistente prestava servizio in piedi sul Trono, accanto all'Em.mo Cardinale Diacono che è a destra del Sovrano Pontefice.
Riceveva l'incenso e la Pace dopo il Vice-Camerlengo di Santa Romana Chiesa e prima degli altri Prelati di fiocchetto, ministrava al Lavabo nella Santa Messa celebrata dal Sommo Pontefice. Non era ammessa la sostituzione di persona se non fra i due titolari.
Attualmente i Principi Assistenti al Soglio prestano servizio in occasione delle visite ufficiali dei Capi di Stato.

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La Giustizia di Dio

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Mosso dalla volontà di chiarire innanzitutto a me stesso cosa è la Giustizia di Dio, ma anche per chiarirmi la sua ineludibilità in relazione alla Misericordia, scrivo queste righe ad aprire un dibattito che possa fare dono a tutti di chiarezza.
Parto col dire che la parola Giustizia ha diversi significati.
In senso lato significa lo stato di perfetta moralità, ossia lo stato di santità, e in questo senso disse Gesù: quaerite autem primum regnum et iustitiam eius et omnia haec adicientur vobis (Mat 6,33).
In senso stretto significa la giustizia commutativa; la quale è quella virtù per cui uno rende a ciascuno il suo, ossia rende al prossimo tutto quello di cui gli è debitore.
Questa giustizia é evidente che non possa attribuirsi a Dio; Dio è l'Ente supremo, assoluto, indipendente, non vincolato da nessuna legge, da nessun obbligo verso le sue creature: quindi è impossibile che abbia doveri e debiti verso di loro, come anche è impossibile che queste abbiano dato qualche cosa a Dio e siano verso di Esso creditrici. Chiaro è S. Tommaso: Et haec non competit Deo, quia, ut dicit apostolus, Rom. XI, quis prior dedit illi, et retribuetur ei? (I, Q. 21, Art. 1).
In senso stretto altresì ci si riferisce alla Giustizia distributiva; ed è quella virtù per cui il Superiore, il Principe assegna ai sudditi o premi o castighi proporzionati ai loro meriti o demeriti.
La Giustizia distributiva appartiene a Dio, essendo Egli il Sommo Padrone, Legislatore, Giudice degli uomini. Questa divina Giustizia cosi si definisce: la volontà immutabile ed efficacissima di Dio di rimunerare, con premi proporzionati ai meriti, i giusti; e di punire, con castighi proporzionati ai demeriti, i peccatori.
Questa Giustizia distributiva di Dio è infinitamente perfetta, superiore senz’altro alla Giustizia distributiva dei Principi, Superiori, Giudici di questa terra per le ragioni seguenti:
1) l'umana Giustizia é deficente, può mancare: o in quanto il Giudice per errore di intelletto giudichi male e applicando una pena o maggiore o minore del demerito; o in quanto il giudice per errore d'intelletto può assolvere un reo giudicandolo innocente, ovvero condannare un innocente sentenziandolo reo e colpevole; o in quanto il reo può sottrarsi alla efficacia della giustizia umana, ad esempio con la fuga;
2) l'umana Giustizia ha solo per oggetto le azioni esteriori dell'uomo, ma non le interiori: quindi a queste o buone o perverse non può applicare né premi né pene; e cosi non può giungere a correggere e a riformare l'interno dell'uomo, lasciandolo corrotto e malvagio (pur con i dovuti sforzi delle scienze umane moderne e del moderno sistema detentivo, comunque fallibile);
3) l'umana Giustizia punisce solo le colpe gravi, delle leggere non può ocuparsi. Ma la divina Giustizia, perfettissima come è, punisce anche le colpe più leggere; dice Gesù nel Vangelo: dico autem vobis quoniam omne verbum otiosum quod locuti fuerint homines reddent rationem de eo in die iudicii (Mat 12,36); premia poi le opere buone anche minime, dicendo Gesù : et quicumque potum dederit uni ex minimis istis calicem aquae frigidae tantum in nomine discipuli amen dico vobis non perdet mercedem suam (Mat 10,42). Tali difetti non connotano la Giustizia divina, essendo sapienza e santità infinita, penetrando fin nei più reconditi pensieri dell'animo umano, scrutandone i più segreti pensieri (e non come qualcuno afferma facciano pure gli Angeli). Quanto più imperfetta è l'umana Giustizia, altrettanto di più, cioè infinitamente perfetta è la Giustizia divina.
Altresì è costume largo “allungare” la “rozzezza” evangelica con il miele del teologically correct, espungendo i passi chiarificatori di uno degli attributi più belli, ma anche più esigenti, di Dio:

Iustus Dominus, et justitiam dilexit (Sal 10,8); Paravit in iudicio thronum suum, et ipse judicabit Orbem terrae in aequitate, judicabit populos in justitia (Sal 9,8); Justitia ante eum ambulabit (Sal 81,14); Justus Dominus in omnibus viis suis (Sal 144,17).

Inoltre ancora nelle Scritture si dice che Dio inspector est cordis, ma reddetque homini juxta opera sua (Prov 21,12).
Altresì di Dio Giudice supremo disse Gesù stesso: Tunc reddet unicuique secundum opera ejus (Mat 16,27); S. Paolo predice il giorno justi judicii Dei, qui reddet unicuiqui secundum opera ejus; iis quidem, qui secundum patientiam boni operis gloriam, et honorem, et incorruptionem quaerunt, vitam aeternam ; iis autem, qui sunt ex contentione, et qui non aequiescunt veritati, credunt autem iniquitati, ira et indignatio (Rom 2,5). Con queste parole l'Apostolo dichiara esistere in Dio tanto la Giustizia remunerativa, che premia, quanto la vendicativa, che punisce. Dice inoltre a dimostrazione della divina Giustizia: Bonum certamen certavi etc. in reliquo reposita est mihi corona justitiae, quam reddet mihi Dominus in illa die justus judex (2Tim 1,7).


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