sabato 23 febbraio 2008

Il vincolo del Matrimonio

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Oggi come mai, è sempre meno chiaro il senso e il perché di un Matrimonio. E ancor meno perché lo Stato sarebbe interessato a questo tipo di negozio familiare.
Procedo per gradi.
Ci sono vari modi di intendere l’essenza del Matrimonio: 1) l’essenza consiste nel mutuo consenso dei contraenti espresso con parole o segni visibile; 2) l’essenza consiste nell’uso dello stesso, ossia nella copula coniugale; 3) l’essenza consiste nel legame e vincolo spirituale.
La prima non può ammettersi, giacchè il consenso è passeggero, è un atto transitorio, oggi c’è domani forse no; e invece il Matrimonio richiede uno stato permanente, continuo. Piuttosto il consenso è la causa del Matrimonio, ma non è la sua essenza: i tomisti direbbero che la causa producente l’effetto non è l’essenza dell’effetto stesso.
Nemmeno la seconda può ammettersi, giacchè l’uso del coniuge e il diritto ad essere “arbitro dell’altrui corpo” (S. Paolo) non è altro che una conseguenza derivante dall’essenza stessa del matrimonio, ma non è l’essenza. La quale dunque è da ricercare ancora altrove.
Non resta che la terza, poichè il legame o vincolo spirituale nasce dal consenso e produce il diritto all’uso del coniuge, ed è continuo e permanente.
Questo è dimostrato dal fatto che la Chiesa ha sempre ritenuto valido il Matrimonio tra la Vergine Maria e S. Giuseppe, nonostante fosse mai intervenuto l’uso del Matrimonio stesso.
A proposito, la Chiesa ha sempre ritenuto legittimo l’uso del coniuge, è di Fede: S. Agostino prova ciò non solo con la Scrittura (Gen 1,28 et 1Cor 7,3), ma anche con la presenza stessa di Gesù a Cana.
Il Matrimonio fu istituito quale Sacramento da Cristo stesso, e la tesi è di Fede, così definita dal concilio di Trento:

Si quis dixerit matrimonium non esse vere et proprie unum ex septem Legis evangelicae sacramentis a Christo Domino istitutum, seda b ho minibus inventum, neque gratiam conferre: anatema sit! (Sessione 24, Can. 1)
Leggendo il capitolo 11 del vangelo giovanneo, capiamo alcune cose: 1) che Gesù con la Sua presenza dimostrò tali nozze essere oneste e lecite; 2) fu allora che Cristo innalzò il matrimonio alla dignità sacramentale. A tal proposito, stupendo è il commento di S. Epifanio all’episodio, dicendo che Cristo intervenne alle nozze di Cana ut quod deerat, emendaret; ac iucundissimi vini suavitate mulceret et gratia: cioè, intervenne alle nozze per correggere , ossia per aggiungere quod deerat, quello che mancava, fino allora, alle nozze; per aggiungere la Grazia al contratto di nozze. E ancora, per addolcire, alleggerire il peso dello stato coniugale con la Grazia, simile alla dolcezza del vino.
Non c’è dubbio alcuno che nella Chiesa, sia greca che latina, in tutti i secoli e in tutti i luoghi, si è sempre considerato e praticato il Matrimonio come un vero e proprio Sacramento producente la Grazia. Appare chiaro dai libri rituali e sacramentali, che fra i sette Sacramenti annoverano sempre il Matrimonio; dal Concilio di Firenze, che nel decreto pro Armenis dichiara di considerare il Matrimonio quale Sacramento settimo.

Restando puramente e doverosamente in ambito cattolico, è da dirsi che nel Matrimonio non vi è nessuna distinzione fra contratto naturale e Sacramento. Soprattutto nell’Ottocento, così caro alla sinistra libertaria e neorisorgimentale, alcuni giuristi, volendo sottomettere il Matrimonio alla potestà laica (ricordo che ciò è avvenuta per opera del governo sabaudo) e sottrarlo alla potestà ecclesiastica, proponendo il matrimonio civile, insegnavano la separabilità del contratto dal sacramento: ne traevano la conseguenza che il matrimonio civile era vero contratto naturale, vero e onesto matrimonio. Il Matrimonio rischiava dunque di sottrarsi alla giurisdizione della Chiesa e sottoporsi, nella sua sostanza, alla giurisdizione della potestà civile, con conseguente dissacrazione, laicizzazione del principio e origine della famiglia, per poi procedere alla naturalizzazione della stessa e della società di cui essa è nucleo primo. Operazione strategica, senza dubbio.
Ma la tesi contraria è di Fede, avendo Papa Pio IX nella allocuzione del 27 Settembre 1852 stabilito che nessun cattolico ignora o può ignorare che il Matrimonio è vero Sacramento da Cristo istituito e che non vi sono più matrimoni.
V’è poi la Proposizione 66 del Sillabo, condannata sempre dallo stesso Pontefice.
Quindi, ed è di Fede anche questo, nonché sancito nello stesso decreto di Eugenio IV pro Armenis del Concilio di Firenze, il mutuo consenso è la causa che produce il Matrimonio, ossia il contratto di Matrimonio, dunque il Sacramento stesso (poiché coincidono). Il consenso dei coniugi, indipendentemente da ogni benedizione sacerdotale, produce il contratto naturale che è il Sacramento; il contratto è diventato produttore di Grazia, cioè sacramento; il contratto è lo stesso Sacramento: quindi fra contratto e sacramento non vi è nessuna distinzione di sorta.
Il Concilio di Trento, nel Proemio sul Matrimonio, paragona il Matrimonio nella Nuova Legge, cioè nella Chiesa di cristo, con il Matrimonio nella Legge Antica, di Mosè; è cioè un paragone di due contratti, l’uno nella Chiesa, l’altro nella Sinagoga. Ma dice che il primo è superiore in eccellenza, in dignità al secondo. Perché? Per motivo della Grazia, la quale, per mezzo di Cristo, il primo conferisce, mentre il secondo non la conferiva.

Qui mi fermerei per venire un po’ a oggi e trovare corrispondenze normative.
Il Matrimonio come contratto è così stesso contemplato dal Canone 1055: §1. Il patto matrimoniale con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita …
In questa direzione pure il Canone 1057: § 1. L'atto che costituisce il matrimonio è il consenso delle parti manifestato legittimamente tra persone giuridicamente abili; esso non può essere supplito da nessuna potestà umana.
A confermare l’essenza del Matrimonio di cui parlavo più su, la sua definitività, ancora il canone 1057: - § 2 Il consenso matrimoniale è l'atto della volontà con cui l'uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio.
Il Matrimonio è vero contratto, quindi; produce la essenza nel vincolo spirituale permanente; dispone i seguenti fini: Il patto matrimoniale con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole (Can. 1055 - §1).
Proprietà essenziali al raggiungimento dei quali sono l’unità e l’indissolubilità.
L’unità del Matrimonio consiste nel fatto che un solo uomo abbia per moglie una sola donna nel tempo stesso, e così una sola donna abbia per marito un solo uomo nel tempo stesso. I riformatori (si fa per dire) del XVI secolo sostennero che la poligamia era lecita, almeno in caso di necessità. Il Concilio di Trento condannò tale tesi nella Sessione 24, Can.2.
Cornelio A Lapide spende molte righe nei suoi Commentaria per interpretare e spiegare il capitolo 10 di Marco, dalla cui retta lettura si ricavano frutti di chiarificazione. Si chiede a Gesù se ripudiando una donna, il marito di quella possa contrarre licite et valide Matrimonio con altra donna. Nella Sua risposta, Cristo cita il Matrimonio istituito tra i primi Padri, Adamo ed Eva nell’Eden; dimostra, cioè, che il Matrimonio, in origine, per istituzione di Dio, doveva essere tale, che due fossero in una sola carne, che due costituissero come un solo individuo, quindi, che due soltanto costituissero il Matrimonio. L’uomo dunque non ha nessuna libertà, nessun diritto di sciogliere l’unione matrimoniale. Ma i Farisei incalzano Gesù e oppongono al suo discorso la liceità data loro da Mosè.
Fantastica e schiacciante è la risposta di Gesù: ad duritiam cordis vestri permisit vobispraeceptum istud! (Porca miseria!); cioè, Mosè permise il divorzio anche quoad vinculum, perché la poca virtù degli Ebrei non avrebbe potuto sostenere il peso della unità e indissolubilità del Matrimonio di cui ho detto prima.
L’indissolubilità significa che il Matrimonio non può sciogliersi mai.
Cercherò di occuparmi della indissolubilità quoad vinculum, cioè concernente il vincolo in sé.
Bisogna allora chiedersi se il Matrimonio non sia insolubile per diritto naturale (e noi che siamo credenti diciamo per diritto divino), oppure per diritto ecclesiastico.
Eugenio IV nel Decreto pro Armenis, e con lui il Concilio di Firenze, dichiara di non esservi possibilità alcuna di dissoluzione a causa della analogia con il Matrimonio tra Cristo e la Chiesa: propter hoc quod significat indivisibilem unionem Christi et Ecclesiae. E Pio IX condannò nella num. 67 la proposizione del Sillabo che prevedeva appunto lo scioglimento del vincolo mediante l’autorità civile.
Adamo stesso proclamò l’indissolubilità del Matrimonio esclamando, quando Dio gli presentò Eva ed istituì il Matrimonio: os ex ossibus meis, et caro de carne mea (osso dalle mie ossa, e carne dalla mia carne); ma anche Gen 2,23.24); il marito e la moglie, in forza del contratto coniugale, sono divenuti una sola persona, duo in carne sola. Il Matrimonio è indissolubile per diritto naturale quindi; eccetto che per causa della morte sopraggiunta di uno dei due. E’ indissolubile per diritto non solo naturale, ma divino: non già perché Dio è autore della natura, ma perché Adamo lì proferisce quelle parole per ispirazione di Dio. Così interpreta infatti il Concilio di Trento nel Proemio della Sessione 24.
Solo la morte, nessun’altra causa può sciogliere quel vincolo; cosicchè, se uno dei coniugi tenta di infrangere il vincolo col passare ad altre nozze o altre relazioni, si affanna a realizzare qualcosa di irrealizzabile: egli commette delitto di adulterio! E’ San Paolo a confermarlo: vivente viro, vocabitur adultera! (Rom 7,3)
Il vincolo può sciogliersi tuttavia stanti i seguenti difetti: inconsumazione e Fede.

Per l’inconsumazione, appurato che vi sia giusta causa, il diritto contempla: Il matrimonio non consumato fra battezzati o tra una parte battezzata e una non battezzata, per una giusta causa può essere sciolto dal Romano Pontefice, su richiesta di entrambe le parti o di una delle due, anche se l'altra fosse contraria (Canone 1142).
Per i difetti che occorrono quoad fidem dobbiamo distinguere il privilegio paolino e il privilegio petrino.
Privilegio Paolino: Can. 1143 - §1. Il matrimonio celebrato tra due non battezzati, per il privilegio paolino si scioglie in favore della fede della parte che ha ricevuto il battesimo, per lo stesso fatto che questa contrae un nuovo matrimonio, purché si separi la parte non battezzata.
§2. Si ritiene che la parte non battezzata si separa se non vuol coabitare con la parte battezzata o non vuol coabitare pacificamente senza offesa al Creatore, eccetto che sia stata questa a darle, dopo il battesimo, una giusta causa per separarsi.
Privilegio Petrino: uno dei due coniugi si converte alla fede cattolica; è accertata l’impossibilità di ricostituire la comunione di vita coniugale; sussiste una giusta causa.
Can. 1148 - §1. Il non battezzato che abbia contemporaneamente più mogli non battezzate, ricevuto il battesimo nella Chiesa cattolica, se per lui è gravoso rimanere con la prima di esse, può ritenerne una qualsiasi licenziando le altre. Lo stesso vale per la moglie non battezzata che abbia contemporaneamente più mariti non battezzati.

Can. 1149 - Il non battezzato che, ricevuto il battesimo nella Chiesa cattolica, non può ristabilire la coabitazione con il coniuge non battezzato a causa della prigionia o della persecuzione, può contrarre un altro matrimonio, anche se nel frattempo l'altra parte avesse ricevuto il battesimo, fermo restando il disposto del can. 1141.
In altri casi, il diritto prevede la separazione in permanenza del vincolo:
Can. 1151 - I coniugi hanno il dovere e il diritto di osservare la convivenza coniugale, eccetto che ne siano scusati da causa legittima: l’adulterio; il grave pericolo cui uno dei due coniugi esponga il bene spirituale o corporale dell’altro o della prole; il fatto che uno dei due sposi abbia reso troppo dura la vita comune all’altro o ai figli.
Vista quindi la estrema densità semantica, consentitemi, del termine Matrimonio, non guasterebbero nemmeno alcune note di riflessione circa la sua efficacia sociale.
Proprio lo Stato liberale, quello cioè configurato con il minimo di interventi centrali e il massimo di azione cittadina, dovrebbe riconoscere e promuovere i soli negozi che contribuiscono al bene sociale; le sole attività che producono utile sociale: e tra queste primamente la procreazione, l’allevamento e l’educazione dei figli assicura alla società la sua stessa sopravvivenza.
Quando ho parlato dei principi essenziali del Matrimonio, unità e indissolubilità, inevitabilmente ho preparato il terreno a questa parte del mio scritto che dimostra essere quelli i requisiti idonei, propizi a che avvenga la cosiddetta “educazione del cittadino”: una vita associata caratterizzata dal vincolo, dalla stabilità, dalla unità.
Le unioni di fatto, sia etero e omosessuali, per loro stessa natura sono caratterizzate da volatilità e affidate al capriccio o al desiderio autoreferente: infatti i soggetti che compongono tali unioni hanno deliberatamente e appositamente scelto di non impegnarsi con nessun contratto, nessun sinallagma.

Lo Stato ha bisogno di garanzie e, pur la crisi in cui i contraenti possano incorrere, il Matrimonio resta l’istituto più convincente, forte, carico di garanzie che la società abbia saputo produrre. Il filosofo Samek Lodovici spiega bene che il Matrimonio prevede che i coniugi si assumano delle responsabilità in modo pubblico e formale, si assumano dei doveri verso il coniuge e verso i figli, il cui rispetto può essere rivendicato anche giuridicamente; nelle forme alternative di vincolo, così tanto in voga oggi, lo Stato apre una obbligazione nei confronti dei conviventi, mentre questi non assicurano alcun “ritorno” sociale allo Stato. E’ proprio lo Stato liberale che dovrebbe dire no, e lasciare che i singoli cittadini si autodetermino affettivamente, al di fuori del contratto matrimoniale, come credono e senza alcuna partecipazione obbligazionaria dello stesso. Lo Stato liberale, infatti, dovrebbe mai dimenticare, pena la sua estinzione, ciò che Aristotele nella Etica Nicomachea afferma: la famiglia è qualcosa di anteriore e di più necessario dello Stato.

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