La modernità
Anzitutto il moderno si costituisce per noi attraverso una frattura, che non definisce soltanto il modo in cui si origina (come frattura rispetto alla tradizione e quindi come interruzione della continuità storica), bensì anche il suo stesso modo di essere. Al suo interno, infatti, dominano i fenomeni della discontinuità. Frammentazione, interruzione, senso di precarietà sembrano descrivere, in particolare, l'esperienza che l'uomo contemporaneo fa di sè e del suo mondo.
[C. Ciancio, U. Perone, Cartesio o Pascal - Un dialogo sulla modernità, Rosenberg & Sellier 1995]
La modernità come frattura, dunque.
E dalla collocazione sull'asse diacronico del moderno dipende inevitabilmente anche il giudizio che su esso formuliamo. Alcuni preferiscono farlo iniziare nel 1559, con la pace di Cateau-Cambresis, perchè essa chiuse la serie di guerre, quasi una sola interminabile guerra, iniziata nel 1494 con la discesa in Italia di Carlo VIII, e aprì il lungo periodo della preminenza spagnola in Europa e della dominazione straniera in Italia (anche se qui le sorti si erano decise un po' di anni prima sia nel reame del Sud, sia a Pavia nel '25, sia a Roma nel '27).
La letteratura, a mio parere, più delle discipline filosofiche, riflettono lo iato.
Il romance (le classiche forme narrative dell'antichità), come analogia dell'innocenza, è caratterizzato da una forte spinta alla sublimazione, alla trasfigurazione onirica, alla costruzione di un mondo ideale in cui i buoni sconfiggono i cattivi e la virtù trionfa sempre sul vizio. L'archetipo complanare è appunto il paradiso terrestre (età dell'oro), mentre le sue immagini rimandano a valori sublimati come la castità, l'umiltà, la mansuetudine, la devozione. E' certamente un mondo popolato di cavalieri senza macchia, di eroine perseguitate, di vecchi saggi, di spiriti, di agnelli, di farfalle, di castelli e di riposanti specchi d'acqua.
Nel novel (romanzo moderno), questo atteggiamento idealizzante non viene respinto in modo assoluto, ma può essere assorbito (Don Chisciotte lo dimostra) soltanto come residuo, come contrappunto ironico, come eccezione.
Robinson Crusoe è forse il primo personaggio letterario a pagare la propria libertà con l'incertezza del destino e con un'inarrestabile inflazione di senso. Con lui, il nuovo borghesotto, prototipo della età moderna, constata l'esplosione dei codici feudali e l'apertura di una impressionante potenzialità di vita. La parabola storica di Napoleone è molto indicativa: il rischio maggiore è lanciarsi sui sentieri del possibile e di doversi accorgere, un giorno, che quei sentieri non conducono proprio a niente.
La modernità inaugura un nuovo tipo di romanzo: i suoi "eroi" sono ora dei "cercatori", e lo schema principale delle loro azioni è ancora l'archetipo della ricerca, della quest. Ma non una ricerca di tesori, nè di nobili virtù: l'eroe moderno è proprio impegnato in una ricerca di senso.
In filosofia, a mio avviso, la frattura rigurda soprattutto il rapporto con l'esperienza cristiana della verità. La tensione tra ragione filosofica e cristianesimo appare come uno dei tratti distintivi della nostra civiltà. E la frattura ha di fatto portato la filosofia alla proclamazione della propria completa autonomia e alla critica più distruttiva nei confronti del cristianesimo.
Ma, d'altra parte, persino la teologia cristiana si è spinta fino alla rivendicazione dell'assoluta originalità del cristianesimo rispetto alla ragione filosofica.
Il tomismo è l'antidoto a questi due istmi: a) la ragione moderna, quando tenta di emanciparsi da ogni influsso cristiano, rischia di perdere la sua portata speculativa o di estinguere la filosofia nel pensiero scientifico; b) il cristianesimo ha potuto evitare gli integralismi e i fondamentalismi proprio perchè ha sempre fatto i conti con la ragione.
E' uno schiaffo agli sciattoni della filosofia e della teologia d'oggi. Ed è bene servirsi degli "emendamenti" didattici di un Papa quale Benedetto XVI, in questo molto attento e impegnato.
Aggiungo soltanto un archetipo.
Nel Fu Mattia Pascal di Pirandello, il protagonista, a colloquio con un sacerdote, tracciato un quadro nero del presente, ne dà la colpa simbolicamente a Copernico:
"Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità."
E gli spiega che "quando la terra non girava, l'uomo vestito da greco e da romano vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sè", mentre poi "tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'universo...
Che differenza con la Divina Commedia.
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